Pino Pascali: elogio dell’atto performativo

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La Fondazione Prada di Milano ha inaugurato recentemente la vasta retrospettiva dedicata alla figura-simbolo del panorama dell’arte italiana, ma forse ancor di più internazionale, Pino Pascali. Un fulmine a ciel sereno, che sradicò nelle profondità germinali dell’arte le strutture normative di creazione estetica-espositiva, proponendo nel solo arco di quattro anni opere, sculture, forme e riflessi, in ben tredici mostre personali, di cui una in Francia e due in Germania

In grado di problematizzare e decostruire la fissità creativa e simbolica di un’arte sterile, propugnatrice di un conservatorismo totalmente scisso dai bisogni della comunità, la radicalità dell’opera di Pascali si situa proprio nello spirito di scoperta che abita il suo percorso creativo. Introspezione e creazione, al di là delle barriere socioculturali che limitano il pensiero, indagando nel profondo non solo la materia in sé, ma la funzione stessa del proprio manipolare e produrre. Sono anni di fermento febbricitante: Pascali respira l’aria di rigenerazione artistica, di riflessione profonda e necessità creativa. Tutto è arte: il suolo che abitiamo, il mare che ci accoglie, il materiale che ci accompagna nella nostra vita quotidiana, il corpo stesso di cui siamo costituiti.

Quale è dunque il ruolo dell’artista? 

Nella società di primi anni Sessanta, tesa al consumismo di massa, in cui il confine, l’aura di sacralità dell’opera, che le gallerie tentano ancora di sostenere, sembra sostituito dalla macchinazione produttiva, ecco che la democratizzazione dei mezzi di produzione permette di allargare il campo di interesse dell’arte. Permette, ed è il caso di Pascali e molti altri suoi compagni di vita, quali Kounellis, Luciano Fabro e Boetti, di debordare la propria opera al di là degli spazi espositivi propriamente intesi. Ecco che l’opera si realizza non solo nella propria forma, a sé stante, ma nel dialogo che intrattiene con lo spazio in cui è posta, con il filo conduttore del materiale che la costituisce, nella temporalità della biografia di oggetto di cui l’artista è artefice.

Modifiche, cambiamenti in corso, sperimentazioni tecniche, sono tutte modalità di creazione che Pascali accoglie quale processo in costante mutamento. Cosciente della dinamicità dell’esistenza, Pino Pascali è, prima di tutto, la propria visione, la sua arte è la sua vita: l’opera si sugella al suo essere, diventa il simulacro estetico, l’embrione pulsante delle idee che affollano la sua mente, le stesse che tesseranno il mondo dell’arte a partire dalla sua morte, il 1968. Fondazione Prada struttura la mostra in quest’ottica: ricostruendo quattro delle sue esposizioni personali, radicali nel percorso di comprensione, riunisce per la prima volte gruppi di opere in dialogo fra loro.

È impossibile comprendere il messaggio di Pascali senza riconoscere lo stretto legame fra la dimensione fruitiva (che la sociologia inizia ad indagare proprio in quegli anni), espositiva e creativa. L’opera respira nel momento in cui è osservata, toccata, manipolata. Le modalità di allestimento assumono un’importanza radicale: come trasmettere la decostruzione del sistema se si continuano a presentare le medesime modalità di sussistenza?

Il sodalizio di Pascali e il gallerista Fabio Sergentini, nato a partire dalla mostra “Pascali. Nuove sculture” nella galleria L’Attico a Roma nel 1966, visibile nell’esposizione milanese, si inserisce in tale prospettiva. L’opera, radicale nella propria struttura, materia ed essenza, si ibrida con la libertà di esposizione concessa dallo spazio stesso. La necessità di una forma scultorea nuova, che porterà negli anni successivi alla nascita dell’installazione in senso proprio, si lega alla natura performativa dell’atto creativo, presente già, in stadi germinali, in Fontana e in Burri (limitandomi al contesto italiano). Quattro mostre personali, ricostruite in modo dettagliato, in grado di suscitare una parvenza di realtà, anche se mancanti del contesto politico in cui furono inserite. La libertà di strutturazione dell’opera dell’oggi deve molto alle scelte espositive del passato, di cui Pascali fu uno dei grandi propugnatori.

L’esporre esseri viventi (come nel caso della mostra a Roma del 1966 Animal Habitat di Richard Serra, oppure i cavalli di Kounnelis del 1969), materie vive e pure nella loro essenza (Pascali fu il primo ad esporre terra ed acqua nelle gallerie, a indagare in termini minimalisti e strutturali l’architettura stessa del mondo), l’utilizzo di una materia tenuta a debita distanza da tutto ciò che veniva bollato come Arte (i bachi da setola di Pascali, realizzati con lana di acciaio, e buona parte della sua produzione con materiali industriali e domestici). Ecco, mi permetto una leggera nota conclusiva, il mondo artistico di Pino Pascali è troppo ampio per essere ridotto a questo frammento.

Il lavoro di raduno e ricostruzione di Fondazione Prada è di una rarità estrema, di grande sentimento e fascino per il mio occhio piangente. Tuttavia, la grande performatività costitutiva stessa dell’anima di Pascali, imprescindibile al panorama mondiale e non solo a quello romano dell’Arte Povera, risulta ridotta. È nell’abbraccio del processo creativo che è conservato il nucleo, la chiave di lettura dell’opera e del processo di apertura-gestazione che Pascali conduce con occhio attento al mondo attorno a lui.

L’archivio fotografico massiccio dell’opera di Pascali (molto di quell’eccitamento espressivo non sopravvisse per scelte autoriali) documenta la sua ottica avanguardista. Il respiro dell’energia creativa che non tiene conto di nulla, se non dello spirito creativo stesso: libero di indagare strati nascosti della società, di emanare la propria Arte al di là dello spazio chiuso di una galleria, di usare il proprio corpo come scultura vivente. Tutto ciò che segue la morte di Pascali risente del suo influsso.

La sua breve esistenza, simile a quella di Piero Manzoni, ha disseminato i germi di un’Arte nuova che porta alla ridiscussione totale del ruolo dell’artista, dell’oggetto, del critico “benpensante” e soprattutto del fruitore, il solo in grado di dare vita e respiro a ciò che consunto vive e decade tra le pareti sterili. 

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