Su Manshu opium squad di Monma e Shikako

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Inauguriamo oggi una nuova rubrica che si occuperà specificatamente di recensioni di manga e fumetti. Il nostro contributor Enrico Zappatore ci parla di Manshu opium squad di Monma e Shikako, un manga ambientato nella Manciuria della seconda guerra mondiale

Dopotutto, perché non puntare sui vinti? Se il punto è ridescrivere la storia, perché non trasformare i  momenti più dolorosi, problematici in narrazione? Non è meglio essere revisionisti, insistere sulla  consapevolezza? Bisogna vedere. Ma può darsi che cominciare da chi è stato massacrato, e da chi ha stoicamente resistito, sia un buon modo di cominciare (certo: a patto che uno rinunci a ogni retorica, a  ogni pelosa commozione). In fondo è questo genere di storie di abnegazioni e sofferenze a rimanere, a  depositarsi nella memoria e creare un sentire sociale condiviso. Per questo vale la pena leggere e parlare di Manshu opium squad. Sì, vabbè: per questo, perché è stato inserito nella lista dei papabili per il premio Kōdansha, che spesso ci prende, e perché si è meritato una lunga serie di recensioni molto elogiative sul web – o almeno è quello che è successo nella mia bolla (e poi ci si lamenta della corrente omologazione  culturale; semmai è vero il contrario: esiste un’interazionale pop, ma esiste anche una galassia di particolarismi meravigliosi che orientano le scelte e i consumi di ciascuno – uno può amare Il signore degli anelli e venerare i film balneari di Jerry Calà). Comunque, aggiungo volentieri la mia. 

Manciuria, Seconda guerra mondiale. Il neo-arruolato Isamu perde un occhio dopo aver tentato di  soccorrere un civile, così viene congedato e impiegato come bracciante insieme alla famiglia. Solo che la  madre si ammala gravemente, e i figli non hanno abbastanza soldi e non conoscono nessuno disposto ad aiutarli. Il manga racconta di come Isamu, che è un ragazzo buono (è la parola: buono) a cui è toccata la  sfortuna di essere intelligente in un ambiente in cui a contare è soprattutto la forza, trova il modo per  entrare nel giro d’affari legato al traffico d’oppio e di come, anche per colpa o per merito suo, in Manciuria  cambia tutto. E di quel che succede nel frattempo agli esseri umani che in Manciuria ci vivono. 

Soldi e droga, dunque; ma non bisogna farsi l’idea che Manshu opium squad sia una manga sui gangster:  non lo è. Un po’ perché i gangster non si vedono quasi mai in azione, e un po’ perché a Monma sembra  importare più di quello che succede ai gangster (come cambiano le loro vite, cosa hanno o non hanno  davvero a cuore) che di quello che succede ai loro affari. Non che gli affari non si facciano: è solo che, come capita, si fanno quando interviene la vita – quando si incontra o si perde qualcuno, quando un  sogno o una speranza vengono improvvisamente infranti. A caso: Isamu inizia a produrre oppio per  salvare la madre, e sceglie di continuare a farlo per assicurare un futuro al fratello e alla sorella; Li Hua  inizia la sua scalata per vendicarsi (o almeno è quello che si intuisce); Rin si unisce a Isamu perché  intravede la possibilità di riconoscersi finalmente in un affetto, e cioè di amare e lasciarsi amare. Personalmente, non saprei mettere accanto a Manshu opium squad, almeno guardando a questo aspetto,  nessun manga (no, neanche Sanctuary); invece vengono spesso in mente, anche per la qualità della  narrazione, alcune bellissime scene di Breaking Bad o de I Soprano (con le dovute proporzioni: un po’  perché si tratta di prodotti culturali diversi che non ha molto senso paragonare, e un po’ perché I Soprano  è con ogni probabilità la Più Bella Serie TV di Sempre). 

Che cosa c’è, dunque, dentro Manshu opium squad? Intanto, moltissima violenza, che un po’ ha a che fare  con l’ambientazione storica (non è che venga citata direttamente, ma è chiaro che l’unità 731 è il  riferimento costante di una certa crudeltà gratuita esercitata sui corpi umani) e un po’ ha a che fare con il fatto che se uno nasce nel posto sbagliato, tra povertà, ignoranza e coercizioni, una volta entrato nel  mondo ricorrerà all’outillage che gli ha fornito la vita, e insomma sarà violento a sua volta. E poi si vedono un mucchio di disegni e dialoghi così deliziosi e perfettamente congegnati da chiedersi come facciano  Shikako e Monma a collaborare a questo livello senza abitare lo stesso corpo, senza condividere la stessa coscienza. Qualche esempio: tre pagine sublimi all’inizio del manga (pp. 21-23) in cui la violenza, che in Manshu opium squad è sempre contratta ed esplosiva, assume tre forme molte diverse (i modi spicci e villani  di chi è abituato a comandare e a essere comandato, l’indigenza imposta e la crudeltà come mezzo di  soddisfazione vicaria); il dialogo tra Isamu, il fratello e la sorella mentre sotterrano Jinnai dopo averlo ammazzato (p. 53); certe tavole perfette che ritraggono i corpi consumati degli oppiomani (p. 76); il dialogo in cui Li Hua, sublime e diabolica, convince Isamu a entrare in affari con lei.  

E a proposito di nascere nel posto sbagliato. Uno legge i primi due numeri chiedendosi che fine faranno  Isamu, la sua famiglia, Li Hua: se sceglieranno la parte giusta o quella sbagliata. Ma a un certo punto si  rende conto che la domanda non ha davvero senso, perché Isamu e Li Hua (ma tutti, ma tutti!) non hanno mai davvero avuto una scelta. Nascere male, in un paese distrutto in cui alla vita non si dà alcun valore, tra le altre cose significa anche questo: vedersi sottratta ogni possibilità di essere gentili. Pena: la  sopravvivenza. È la stessa irremeabile fatalità che pesa – e non esagero – sui personaggi più riusciti di Shakespeare. 

Ma c’è anche un’altra ragione per la quale essere grati a Monma e Shikako, e cioè che è maledettamente difficile scrivere e disegnare intrecciando Storia e microstoria. Di solito va a finire che i piani si  confondono e una delle due prende il sopravvento sull’altra. Con due possibili conseguenze. O i personaggi non hanno davvero libertà d’azione, e il manga finisce per diventare un giudizio o una condanna comminata alla Storia, o il tessuto storico diventa indifferente per lo sviluppo della trama e  acquisisce una funzione puramente esornativa. Insomma, poteva venir fuori un brutto manga di denuncia.  E invece no. Un po’ perché le vicende personali di Isamu, della sua famiglia e di Li Hua sono inserite in  una cornice che non è mai troppo costrittiva, che non orienta i loro movimenti dando un corso obbligato  alle loro idee; e un po’ perché non c’è traccia di moralismo, di pistolotti o catechismi civili. C’è invece una  limpida e disinteressata volontà di raccontare. 

INTERPOLAZIONE 

Un’osservazione a margine. Il parossismo – l’esagerazione – è uno strumento anche molto efficace (qui Jack Nicholson ne dà una dimostrazione perfetta), ma direi che sarebbe meglio, usandolo, dosare con  una certa cautela, senza abusarne. Poi, certo, i manga sono il luogo d’elezione delle reazioni scomposte,  della drammatizzazione esacerbata e anche un po’ legnosa (lo so, non tutti, non sempre: non va bene  generalizzare); e però bisogna essere abbastanza elastici da ammettere che il consumo d’oppio può anche  non risolversi in violentissimi rush di euforia, con il conseguente corollario di convulsioni, sorrisi alla Jack  Torrance e occhi che schizzano fuori dalle orbite. Ciò detto, poco male: le pagine felici – quelle, diciamo,  non autoptiche – sono molte più di quelle infelici, e il manga continua a sembrarmi molto ben riuscito,  tanto nel contenuto quanto nella forma. No, no, bello, bello davvero.

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