Luca Matti, un mondo abitato dal perturbante

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Per Sigmund Freud, il perturbante (Unheimliche in tedesco) è ciò è che inconsueto, estraneo, non familiare, e che per questa sua non-conoscibilità ci genera angoscia e spavento. Luca Matti, artista fiorentino che ha mutato dal linguaggio dell’illustrazione e del fumetto la capacità di estrarre forme fortemente stilizzate per raccontare la follia, il caos e la nevrosi contemporanee, ha utilizzato questo termine per caratterizzare la sua ultima mostra, in corso ad Arezzo fino al 29 febbraio 2024 (“Luca Matti – Il perturbante dietro l’angolo”, a cura di Matilde Puleo, centro d’arte Rosy Boa, Via Cesalpino 29). Ed è davvero un perturbante “dietro l’angolo”, cioè in grado di sbucare in ogni momento e da ogni anfratto della nostra vita, quando meno ce l’aspettiamo, quello raccontato da Luca Matti nelle sue tele e nelle sue installazioni.

Luca Matti (foto Michela dal Forno).

Uomini definitivamente post-umani, col volto costruito a immagine e somiglianza delle stesse città nelle quali sono abituati a vivere, muti, vestiti uguali, lo sguardo assente, persi in una dimensione distopica e alienata, chiusi nelle proprie ossessioni e nei propri pensieri, cupi e confusi come il mondo stesso in cui si ritrovano a vivere. Questi uomini senza umanità, angosciati e disumanizzati come in un romanzo di Kafka, abitano immense megalopoli nelle quali i palazzi e i grattacieli crescono uno sopra l’altro come strane escrescenze spontanee e innaturali, popolate da blatte, scarafaggi neri che si allungano sui muri e lungo il pavimento, e abitati da una folla di uomini ammassati anch’essi uno sull’altro.

I materiali prediletti da Luca Matti sono, oltre ai colori (pochi), la matita e la pittura in bianco e nero, il bitume e la gomma (nei primi tempi, le sue sculture erano tutte create con la gomma della camera d’aria delle bici). Gomma nera, con cui costruisce corpi, sembianti, animali: un mondo ricostruito in bianco e nero, con un materiale morbido e nero come il petrolio, un materiale insieme seducente e disturbante: “non c’è colore perché non c’è natura”, dice l’artista, riferendosi propprio a quel mondo distopico di cui ormai facciamo tutti indubbiamente parte. “Il mio”, ha detto ancora l’artista, “è sempre un grido di denuncia, un sistema per affrontare ed esorcizzare le questioni, per stimolare un miglioramento”.

Le opere sembrano comunicare un senso di oppressione derivante dalla sopraffazione umana, sia in termini di relazioni umane che di impatto sull’ambiente. La crescita incontrollata delle città, descritta e raccontata come una gabbia, suggerisce un’espansione che può diventare limitante e opprimente. Le architetture aggressive sembrano nascondere una violenza intrinseca allo stesso sviluppo urbano. La rappresentazione della natura come sintetica e inquinante sottolinea il deterioramento dell’ambiente naturale a causa dell’azione umana. Persino lo spazio cosmico, con i satelliti che esplorano e producono detriti spaziali, suggerisce una prospettiva di inquinamento anche al di fuori del nostro pianeta, estendendo l’impatto umano anche al di fuori del perimetro della terra, nello spazio. Questo potrebbe essere interpretato come una riflessione sulla responsabilità dell’umanità nel gestire le proprie azioni e conseguenze, anche a livello globale.

In generale, c’è senz’atro, nel lavoro di Matti, un messaggio critico riguardo al modo in cui gli esseri umani interagiscono tra loro e con il loro ambiente, evidenziando le conseguenze negative di un comportamento irresponsabile e non sostenibile. È questo, dopotutto, il senso di inquietudine che ci attanaglia, quel senso di “terrifico”, di spaventoso” di cui parlava Freud ne Il perturbante, provocando una destabilizzazione delle nostre convinzioni consolidatesi nel tempo. Ed è quello che, stranamente con un senso sottile di gioco, di divertimento, di seduzione, riescono a trasmetterci le opere di Luca Matti. Un mondo insieme distopico e inquietante, ma che, paradossalmente, ci trasmette anche una sorta di sguardo disincantato e divertito sul mondo che ci circonda, quasi che lo “specchio” deformato che l’artista utilizza per mostrarci il volto del reale ci diverta e ci seduca. Forse, dopotutto, nel momento stesso in cui si riesce a dargli forma, il mondo stesso diventa più accettabile. Con buona pace di Freud.

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