Un Capodanno da sogno con la Marchesa Casati

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Immaginatevi il Teatro Eden di Milano allestito come l’Inferno di Dante. Immaginate il buio appena rischiarato da luci rossastre, le bolge che si aprono al vostro sguardo una dopo l’altra mentre vi avventurate nell’oscurità, lasciando intravedere figure seminude che si lamentano nella tortura; e poi la musica, il fumo e bagliori infernali che si levano dai bracieri ardenti.

Giovanni Boldini, Ritratto della Marchesa Casati, 1911 – 1914.

Bene, pare che la marchesa Luisa Casati Stampa abbia voluto festeggiare l’arrivo del nuovo anno 1903 proprio così, allestendo uno dei suoi ricevimenti colossali. Uno dei primi: era una giovane sposa e ancora non aveva conosciuto D’Annunzio, quello che avrebbe trasformato la ragazza troppo ricca e con una fantasia decisamente ipertrofica nella Divina Marchesa. Non si sa che outfit abbia indossato, per quel 31 dicembre. Il vestito d’oro e la corona di piume intorno alla testa sarebbero arrivati qualche anno più tardi, quando avrebbe rifiutato i servigi dei fedeli couturier Worth e Doucet, oramai fuori moda, per passare a Fortuny o al costumista Léon Bakst dei Balletti Russi. Anche i diademi di serpenti, che abbinava di solito con una coppia di coccodrilli al guinzaglio, sarebbero arrivati più tardi. E così il copricapo di candide piume di pavone macchiate di sangue che avrebbe fatto svenire un paio di signore alla prima dell’Opéra Garnier di Parigi. Di certo però aveva già tagliato i capelli in una garçonne che si era inventata lì per lì, nel 1898, due decenni secchi prima che diventasse di moda, con una frangetta pesante che dava profondità ai suoi occhi già enormi, dilaganti nel viso scavato, resi ancora più struggenti dalle lunghissime ciglia finte, dal bistro nero rinforzato da strisce di velluto e dalla belladonna con cui faceva dilatare le pupille.

Luisa Casati, 1915 (Getty Images).

D’Annunzio diventa il suo amante, il primo di una lunga serie. Cosa che non scuote il consorte, il marchesino Camillo, occupato per lo più nella caccia. Ma soprattutto D’Annunzio funziona come una miccia, un demiurgo capace di tirare fuori quella creatività folle che così selvaggia e indomabile, in quanto non abbinata ad alcun talento particolare, diventa la chiave di una vita trasformata in rappresentazione. Luisa, la Kore di D’Annunzio, la sua Regina degli Inferi, si muove come un’attrice sul palcoscenico della vita ogni giorno, come se avesse costantemente i riflettori puntati addosso. E soprattutto ogni notte, quando il tempo è scandito da feste così sontuose da convincere i vicini a lucrare affittando i propri appartamenti ai curiosi che vogliono vedere arrivare gli invitati. Libera, selvaggia, provocatoria, vera e propria icona queer, con il vezzo di mettersi il bracciale sopra il gomito sinistro o intorno alla caviglia destra – uno dei codici della comunità lesbica – perché il mondo sappia che lei non conosce confini.

Tomaine Brooks, Marchesa Casati, 1920.

Conquista Parigi, Milano e Venezia, dove acquista Palazzo Venier dei Leoni per farne il suo palcoscenico e dove gira completamente nuda, le lunghe gambe sottili che si rivelano fino all’indicibile sotto il mantello rosso lungo fino alle caviglie, due ghepardi domestici e farle la guardia e uno stuolo di accompagnatori nubiani ricoperti di polvere d’oro e di un minuscolo straccio sul pube.

Man Ray, Marchesa Casati, 1922.

Dopo tre mariti e un esercito di amanti, Luisa è finita sola e in rovina, costretta a vendere tutto, anche i cimeli del suo idolo, il suo modello di ruolo, quella Contessa di Castiglione che concedendosi a Napoleone III aveva cambiato le sorti dell’Italia e di cui lei si considerava l’erede spirituale; e perfino i suoi libri sull’occultismo. Restano i ritratti degli artisti – e delle artiste – che l’hanno adorata. Imbronciata e nuda, sottile come una silfide, per Romaine Brooks o spettinata e inusitatamente angelica per Augustus John, androgina e con lo sguardo fiammeggiante nello scatto di Adolf de Meyer, nascosta dalla lunga mano guantata in quello di Cecil Beaton e sdoppiata e felina in quello di Man Ray. E poi c’è Boldini, che la ritrae due volte: nel 1908 come una visione nera, con il levriero dello stesso colore dell’abito che sembra confondersi col suo corpo, e poi nel 1911, di profilo, in uno sfarfallio dinamico di seta e di piume di pavone. Lui, che l’aveva incontrata per la prima volta quando aveva già sessantacinque anni e aveva già ritratto tanta bellezza: erano al ristorante, lei, giocando con la collana di perle, l’aveva spezzata, e allora lui si era chinato a raccoglierle, come un innamorato inginocchiato ai suoi piedi, e da quella visione non si era ripreso mai più.

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