Intervista all’artista visuale Giuditta Branconi

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Giuditta Branconi, classe 1998, si racconta attraverso il suo immaginario pittorico che rappresenta un mondo femminile e ancestrale

Incontro e dialogo con Giuditta in occasione di una serata all’insegna della valorizzazione dei talenti femminili. E lei di talento ne ha molto, nonostante la giovane età. E’un’artista che vive e lavora fra Milano e Teramo. Molto legata alla sua terra, si diploma all’Accademia di Belle Arti di Urbino, frequenta poi l’Accademia di Belle Arti di Brera e partecipa a una serie pregevole di mostre collettive e personali. La sua ricerca intreccia simboli, immagini, tele abitate da soggetti esclusivamente femminili, con l’intento di dar voce a realtà dominate da una energia materna e bestiale.

Giuditta Branconi, Se nella notte estiva sai trovare la via, 2023, oil on canvas, 120×240 cm

Nelle tue opere la superficie pittorica oltrepassa il retro della tela, come accade nella serigrafia, dunque il supporto sembra essere più importante del colore. Vorrei che ci parlassi di come avviene il processo di realizzazione del lavoro e di quali sono le tue idee per il futuro.

Lavoro attraverso un archivio di immagini che aggiorno quotidianamente, dopodiché alcune di queste immagini le dipingo. Per quanto riguarda la mia tecnica, lavoro con tessuti sottilissimi, dipingo sul fronte e sul retro della tela.

 È un momento difficile per pensare ad un futuro, nell’immediato sto lavorando con la Galleria L.U.P.O. (Corso Buenos Aires, Milano) e con la Galleria d’arte di Los Angeles Steve Turner

Il tuo è un immaginario che rimanda a scene teatrali che mescolano ingenuità delle figure a simbologia erotica e conturbante, umane e animali, un bestiario femminile, doverosa la citazione al “Bestiario teatrale” della regista e drammaturga siciliana Emma Dante, che crea turbamento. Che ruolo ha lo spettatore all’interno della tua opera?

Lo spettatore è libero nel momento della fruizione, nel mio processo creativo non ha un ruolo.

Nel mio nome, 2023, olio su tela, 180x150cm

Quanto contano nei tuoi dipinti la mitologia, ad esempio penso al mito di Aracne e a Penelope nell’Odissea per l’aspetto della tessitura, e la classicità e perché?

La mitologia, ma la letteratura più in generale, c’entrano in quanto materia da cui attingere, viva e fluida. Mi piace appropriarmi, modificare, maneggiare in maniera libera quello che già esiste.

Le atmosfere esotiche dei dipinti, vicine a Gauguin, il linguaggio orientaleggiante giapponese, il simbolismo espressivo, l’universo del tatuaggio, collocano il tuo lavoro in una sorta di tessitura che rimanda alla fiaba. Di origini antichissime, preistoriche, la fiaba giunge a noi nei toni neri e crudeli delle storie raccontate dai fratelli Grimm. Nella tua pittura, come ad esempio nella scrittura di Gianni Rodari o Antonio Moresco, c’è uno stravolgimento, una manipolazione, un doppio, un lieto fine?

Non c’è lieto fine, come non c’è nella realtà. Viviamo in un paese povero, violento, ignorante e fascista, un paese sull’orlo del baratro, eppure è il luogo che amo, dove voglio vivere, lottare e lavorare, l’esistenza è contraddizione, il lieto fine non esiste in quanto statico e noioso.

Oggi si parla tanto di necessità di mettere in crisi il modello patriarcale, penso alla letteratura con Michela Murgia, recentemente scomparsa, a “Barbie” della regista statunitense Greta Gerwig o all’esordio alla regia di Paola Cortellesi in “C’è ancora domani”. Secondo te l’arte può avere valore etico in questo senso?

L’arte non cambia il mondo, può cambiare delle vite, ma non sconvolge sistemi sociali e politici preesistenti e vecchi di millenni. L’arte riflette ciò che accade, qual è lo spirito del tempo, per me non ha molto a che vedere con l’etica. Chissà come guarderemo le opere che citi fra cinquant’anni…

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