Fotografare la rivoluzione: Tina Modotti, Oltre i confini

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In occasione della 14ª edizione del ColornoPholoLife a Colorno (PR) nell’imponente edificio tardo-manierista dell’Aranciaia – sede museale del MUPAC – è allestita una mostra dedicata a Tina Modotti a cura di Ascanio Kurkumellis, visitabile dal 13 ottobre al 26 novembre. Realizzata grazie al contributo del Comitato Tina Modotti, presenziato da Marì Domini – moglie di Riccardo Toffoletti, responsabile della riscoperta della grande fotografa – e grazie alle stampe ai sali d’argento dell’archivio Toffoletti da lui realizzate direttamente dai negativi originali dell’autrice.

È lo stesso Kurkumellis, a raccontare la storia della riscoperta della fotografa, avvenuta nella primavera del 1971 durante una serata di musica spagnola e di poesia dedicata ai superstiti friulani della guerra civile spagnola. Vittorio Vidali, l’ultimo compagno di Modotti, narra la storia avventurosa e drammatica della sua vita dedita unicamente, prima alla fotografia, poi all’attivismo politico. Dopo soli due anni da quell’incontro, grazie all’influsso di Vidali, Toffoletti, raccogliendo il materiale sparso per il mondo, realizza la prima mostra dedicata all’autrice nel marzo del 1973, a Udine, città natale di Tina Modotti.

Da lì in poi, molte saranno le esposizioni nazionali e internazionali finalizzate a mantenerne vivo il ricordo, che, come sostiene il curatore è necessario, poiché “quando parliamo di Tina parliamo di una donna che ha avuto un’importanza straordinaria nella storia della fotografia, ma che è stata per molto tempo nell’ombra della storia. E  per scoprirla l’unico modo è leggere le sue fotografie, leggere le lettere bellissime che scrisse per quasi un decennio a Weston, leggere le sue immagini che restano nel tempo, oltre confine”.

Assunta Adelaide Luigia Modotti, poi soprannominata Tina, nasce a Udine nel 1896, da una famiglia di estrazione sociale indubbiamente bassa, il ché la costrinse ben presto a lasciare i suoi studi per contribuire al sostentamento familiare. Il viaggio di Tina oltre i confini, inizia proprio all’età di 16 anni, momento in cui per tentare di migliorare le proprie condizioni economiche, segue il padre a San Francisco. Da lì molti sono i mestieri a cui si dedica, tra cui l’attività di attrice, che l’avvicina sentimentalmente all’artista Roubaix de l’Abrie Richey, detto Robo, con il quale parte alla volta di Los Angeles. È proprio nello studio di Robo che Modotti conosce il fotografo Edward Weston. “L’incontro con Weston è una rivoluzione per lei, non solo sentimentale, ma anche di visione del mondo. È lui ad iniziarla al linguaggio fotografico”. Dopo la morte di Robo, nel 1923 parte con Weston alla volta del suo mondo nuovo: il Messico.

“Tina Modotti veniva da una realtà molto povera» afferma il curatore, che spiega il dialogo unisono tra opere e spazio, “e questa sede espositiva sembra parlare della bellezza del mondo contadino. La Reggia probabilmente sarebbe stata, forse, un’architettura troppo invadente, pesante. Sempre, quando si fa una mostra vi è un dialogo con l’architettura. A volte le architetture possono soffocare le mostre. Questo è uno spazio accogliente, intimo, neutrale”.

La mostra è allestita al piano terra dello spazio dell’Aranciaia – luogo anticamente utilizzato come “ricovero invernale” per le piante di agrumi collocate nei mesi d’estate nel vicino parco del Palazzo Ducale. È proprio con la neutralità dello spazio bianco intonacato, impreciso, ingenuo che lo spettatore è immerso in un ambiente di largo respiro, in cui liberamente si muove attraversando spazialmente la storia di Modotti. Anche chi non la conoscesse, grazie all’allestimento e alle scelte progettuali e testuali, uscendo dalla mostra, sentirebbe un profondo senso di empatia e di familiarità. È una fotografa che parla senza mezze misure e l’allestimento espositivo sembra sottolinearne il carattere.

Grandi e imponenti svettano le riproduzioni fotografiche di: Calle,1924; Prospettiva con cavi telefonici, 1925; Bambino davanti a un cactus, 1928 e Donna di Tehuantepec con zucca dipinta sulla testa, 1929. Se volessimo definirne il percorso, le fotografie raccontano cronologicamente la storia della sua esistenza: i primi ritratti di Tina che la ritraggono in posa a San Francisco nel 1919, mentre recita per il suo debutto cinematografico (Tiger’s coat), lo scatto di Seely che la ritrae con Robo nel 1924, lasciano lo spazio alle prime sperimentazioni fotografiche naturalistiche (Geranio, Calle, Canne di bambù) in cui ad attirarla è la straordinaria bellezza formale degli elementi e lo studio della loro composizione.

Sono gli anni in cui inizia a frequentare Weston, che le realizzerà dei potenti ritratti di nudo. Sempre nel ’25 l’influsso di Weston la conduce a sperimentazioni formaliste e astratte, si pensi a Bicchieri, 1925; Deposito n.1, 1926; Stadio,1926 che tentano di riprendere dal maestro il puro stile compositivo, l’elaborato tecnicismo e la raffinatezza stilistica. È forse con l’allontanamento da Weston nel 1924, ripartito per la California, che Tina Modotti riesce a raggiungere la sua piena libertà espressiva. In questi anni si avvicina sempre di più al Partito comunista, a cui aderisce nel ’27, partecipa agli ambienti antifascisti, collabora con “El Machete”.

L’attivismo politico che da sempre arde in lei si concretizza nella sua fotografia quando acquista una Graflex, che le consente maggior maneggevolezza rispetto alla precedente Korona. È proprio con questo apparecchio fotografico che realizza: Parata di lavoratori, 1926, che rivela – secondo la studiosa Federica Muzzarelli – “qualcosa di veramente originale e autonomo, e cioè il suo particolarissimo modo di far straripare la vita nell’arte, o di fare dell’arte una testimonianza di vita”.

La fotografia diviene per lei un atto di comunione col mondo, una documentazione partecipata, una condivisione di ideali, un necessario atto per dar voce agli esclusi, ai poveri. Il suo obiettivo, dunque, viene catturato dai segni del tempo e dalla fatica del lavoro che solcano i volti della gente messicana, dalle mani sporche di terra dei lavoratori, dalla forza delle donne, dalle madri, che caricano vasi pesanti, mentre tengono in braccio bambini nudi, dagli emarginati che vestono tessuti sgualciti, di mani che sfregano panni, da bambini adultizzati, con sguardi troppo seri e severi per un’età come la loro. Le radici della lotta di classe, i lavoratori e le lavoratrici, i bambini senza futuro, prendono il posto dei fiori e delle piante, di quei primi anni di sperimentazioni formali. Scatti del suo amore rivoluzionario con Julio Antonio Mella, del suo successivo assassinio, dell’ultima mostra a Città del Messico del 1928 connotano le pareti dello spazio espositivo, insieme alle lettere scambiate con Weston. Una delle quali riporta una riflessione straordinaria che caratterizza la sua esistenza:

“E parlando di me stessa: io non posso -come tu una volta mi hai proposto – “risolvere il problema della vita col perdermi nel problema dell’arte” Non solo non posso farlo, ma sento che il problema della vita ostacola il problema dell’arte. Ma che cos’è il mio “problema della vita”? […] – in altre parole metto troppa arte nella mia vita – troppa energia – e di conseguenza non mi resta molto da dare all’arte.” (Lettera a Edward Weston, 7 luglio 1925).

Essendo la fotografia, un sostituto della vita, la sua pratica fotografica si interrompe quando decide di dedicarsi attivamente alla militanza politica: la vita ha avuto la meglio sull’arte. Si interrompe il percorso di Tina Modotti come fotografa per lasciare spazio all’attivismo: sarà protagonista degli eventi più intricati di questi anni, Mosca, Berlino, Spagna, saranno l’approdo per la sua figura irrequieta e infine il Messico, dove ritorna, inconsciamente, per morirvi, il 5 gennaio del 1942.

Fotografia, amore e rivoluzione sono stati il perno della sua vita, che seppur breve, è stata, certamente, rivoluzionaria. “Perché non muore il fuoco”, come scrisse per ricordarla, Pablo Neruda.

“Sempre, quando si usano le parole “arte” o “artistico” in merito al mio lavoro fotografico, ho un’impressione sgradevole, certamente determinata dal cattivo uso e dall’abuso che di questi termini si fa. Mi considero una fotografa, niente di più; e se le mie fotografie si differenziano da quello che generalmente viene prodotto in questo campo è proprio perché io cerco di produrre non arte, ma fotografie oneste, senza trucco né manipolazioni”

Tina Modotti, Sulla fotografia, Mexican Folkways, vol. 5 n.4 (ottobre – dicembre 1929).

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