Duchamp era una drag queen? Una riflessione su Rrose Selavy

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Nella recente mostra “Marcel Duchamp e la seduzione della copia” esposta alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia, il mio sguardo si è soffermato più volte sul pannello che descrive la sezione dedicata al concetto di identità. Prendendo come fulcro centrale di tale analisi l’atto di creazione e l’opera Rrose Sélavy, il curatore Paul B. Franklin sceglie di utilizzare il termine “identità drag” per definire l’alter ego duchampiano nato intorno agli anni ‘20.

Il dubbio critico mi porta a discutere tale lettura dovuta all’applicazione di un’etichetta che ritengo, a mio parere, contrastante con la poetica dell’artista francese. Poiché Marcel Duchamp costituisce una figura imprescindibile nel panorama dell’arte contemporanea occidentale e mondiale, molto spesso, a causa della saturazione letteraria data dalle numerose interpretazioni che egli ha suscitato, la critica viaggia in direzione di letture nuove e radicali, ma che si legano ad un presente lontano dalla produzione artistica in questione. In questo specifico caso, ritengo che l’applicazione della categoria “drag” costituisca una nota stonata, nonostante nei vasti mondi dell’arte sia possibile procedere in direzione di visioni differenti. 

Marcel Duchamp e la seduzione della copia / Marcel Duchamp and the Lure of the Copy
14.10.2023 – 18.03.2024
Collezione Peggy Guggenheim / Peggy Guggenheim Collection
Ph. Matteo De Fina
© Association Marcel Duchamp, by SIAE 2023

Mi sento di dissentire in quanto lo sviluppo di questa figura parallela creatrice e produttrice di opere, Rrose Sélavy, si lega unicamente al “gioco duchampiano”, ovvero alla conoscenza sottile della mente umana e all’equilibrio dato proprio dalla consapevolezza del sé. Perché focalizzarsi sul “travestitismo” duchampiano documentato nella produzione fotografica in collaborazione con Man Ray quando lo pseudonimo Rrose Sélavy è portatore di una molteplicità di significati che sono sì legati all’identità dell’artista, ma in termini molto più sottili, concettuali e distanti fra loro?

L’ossessione e la riflessione sul linguaggio, nati dalla visione specificatamente duchampiana, e la critica che ciò comporta al sistema dell’arte istituzionale si condensano nella creazione di pseudonimi e figure nuove, ove Rrose Sélavy assume un ruolo primario e centrale. Duchamp è in grado di scardinare i costrutti socialmente costituiti a partire dalla discussione profonda su quale sia il ruolo dell’artista e, mediante l’utilizzo di differenti tecniche e supporti, viaggia in direzione di uno straniamento spettatoriale. Il fruitore è in tal modo condotto verso una profonda indagine critica dell’atto fruitivo in sé e per sé, oltre che alla riflessione soggettiva nata dalla visione e esperienza dell’opera. Creare anagrammi umoristici è la modalità attraverso cui Duchamp veicola molteplici livelli di interpretazione i quali, intersecandosi fra loro, portano all’impossibilità di definire un gusto, un apprezzamento estetico unico.

Rrose Selavy, Man Ray, 1921

L’ulteriore maschera duchampiana nata dall’uso di abiti o nomi femminili nient’altro che è il medium attraverso cui l’artista ribadisce l’essenzialità data dalla sintesi degli opposti, prendendosi gioco della superficialità uniformata del mercato dell’arte. Utilizzare il termine “identità drag” per definire l’opera duchampiana comporta la costituzione di confini serrati entro cui porre la lettura dell’opera e collide con le affermazioni stesse che l’artista produce in relazione alla sua produzione. Nonostante dal punto di vista etimologico il termine “drag” possa essere utilizzato per descrivere il cross-dressing duchampiano, tuttavia, il fatto che l’opera si cristallizzi in una propria forma è indicativo di come il rapporto di creazione artista-opera si elevi ad un grado di lettura superiore, ove Rrose Sélavy, per quanto importante, costituisce uno dei numerosi prodotti della mente duchampiana.

Numerosi sono gli artisti contemporanei di Duchamp, quale ad esempio Claude Cahun, che possono con orgoglio essere definiti fautori attivisti LGBTQ+, ma in relazione all’artista francese ritengo che la creazione dei suoi alter ego (perché non ci fu solo Rrose Sélavy) costituisce un concetto di analisi che va oltre. L’ossessione per la firma, come nel caso dell’opera di rottura Fountain (1917), a nome R.Mutt, è lo specchio attraverso cui la riflessione duchampiana sul ruolo dell’artista, sull’atto di creazione come atto individuale e soggettivo, accoglie al suo interno l’universalità artistica.

Rrose Sélavy (Marcel Duchamp) nel Sistema Wilson-Lincoln (Schwarz, 344)1967

A mio parere, è proprio in questa totalità che l’alter ego Rrose Sélavy trova la propria origine-scopo: nel conformismo radicato che da sempre contraddistingue il mercato dell’arte e contro cui si muove la produzione dell’artista francese, Marcel Duchamp indaga ogni possibilità altra, mediante differenti tecniche di produzione, riflette sul linguaggio come veicolo di significati, scardina in toto le certezze costituite e, a proposito dell’identità di artista e uomo, egli comprende il vasto ventaglio di sfaccettature di cui è costituito.

E’ impossibile codificare il suo “genio” creativo, è impossibile tentare una lettura tale (ovvero personale) scindendo in tal modo l’opera dall’artista. L’analisi profonda che egli conduce sui concetti più puri che fondano l’Arte quale sistema di vita si condensa nell’impossibilità di definizione dovuta anche, ma non solo, a Rrose Sélavy, presenza compagna creatrice, ma frammentaria. Forse che lo sdoppiamento duchampiano originato dall’alter ego Rrose Sélavy null’altro che sia un ulteriore modo di riflettere sul rapporto fra copia e originale, suggerito dal titolo stesso della mostra corrente, una modalità attraverso cui parlare della replica del sé quale forma muta e soggetta a cambiamento. 

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