Arte e Fascismo. Ecco perché nell’Arte non c’è fascismo. E nel Fascismo non c’è arte (pt. 1)

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La reticenza. La paura della storia. L’antifascismo perenne. Il fantasma di Mussolini. Ovvero: “il faut etre absolument antifasciste”. Da questi diktat deriva la rimozione nell’ultimo quarantennio della evidente connessione di Arte e Fascismo (tema su cui è stata imbastita al Mart di Rovereto la grande mostra omonima, intitolata appunto Arte e Fascismo, aperta fino al 1 settembre 2024). Così, a partire dalla inarrivabile mostra del 1982 (con il titolo in caratteri decofascisti), “Annitrenta” a Milano in Palazzo Reale/Arengario definito “contenitore ‘d’epoca’”, si sono susseguite mostre inequivocabili dai titoli elusivi, il cui tema era sempre e soltanto quello: “Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre”, a Forlì, nei Musei di San Domenico, nel 2013, a cura di Fernando Mazzocca; “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics. Italia 1918-1943”, catalogo della mostra a Milano, Fondazione Prada, nel 2018, a cura di Germano Celant; “Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941”, a Cremona, Museo Civico Ala Ponzone, 2018-2019, a cura di Vittorio Sgarbi e Rodolfo Bona; cui vanno aggiunte le mostre, nel nome di Margherita Sarfatti, al Mart e a Palazzo Reale a Milano. Quella di Forlì, dopo un severo pronunciamento del Consiglio comunale, mutò’ l’audace titolo “Dux. Gli anni del consenso”, storiograficamente impeccabile, nel generico, e non strettamente sarfattiano, “Novecento”.

Renato Bertelli, Testa di Mussolini (Profilo continuo), 1933, Mart.

Insomma, prima d’oggi, nessuno aveva osato. Nonostante l’evidenza, cronologica e iconografica. Siamo antifascisti. Non possiamo pronunciare quella parola, se non contro. La damnatio memoriae. Fascismo mai. In-no-mi-na-bi-le. Innominato. Nonostante l’evidenza. Questa è la prima volta. L’attrazione del male. Il fascismo è come la mafia. Si deve solo contrastare. E raccontarlo? No. Se non fingendo di parlare d’altro. Eludendo. Alludendo. Divagando. Ma il tema – e il tempo – è quello. No. Meglio fingere. Inganniamo il popolo. Diamogli qualche dose di Sarfatti. E quelli che firmarono il manifesto degli intellettuali fascisti? Gabriele d’Annunzio, Giuseppe Ungaretti, Ardengo Soffici, Luigi Pirandello, Margherita Sarfatti, Curzio Malaparte, Ugo Ojetti. Ignoriamo questo dettaglio, parliamone prescindendo. Così siamo arrivati fino a oggi, rimuovendo, girando la testa, censurando. Un buco di vent’anni, e un buio di ottanta successivi. Siamo oltre il centenario.

Mino Maccari, Mussolini trascinato dal re (Serie Dux), 1943. Collezione Luisa Laureati Briganti.

Così, dopo “Il regime dell’arte” a Cremona, ho voluto riparare a questa smemoratezza, a questa ipocrisia. L’avevo fatto a Stupinigi con la paurosa mostra “Il Male”. L’avevo fatto a Salemi, strappando a Corleone il Museo della mafia, proposto dalla Fondazione  Rosselli, e ricusando il consolatorio e riparatorio “Centro di documentazione della attività dell’antimafia”. La mafia che c’è stata si può raccontare, senza paura, e il museo ne fa una cosa morta, archeologica. In un museo muore anche l’arte contemporanea. La paura tradisce la conoscenza. Lo capirono Angelica e Luciana Giussani (cognome altrimenti noto per la vocazione al Bene) che chiamarono il loro fortunato fumetto “Diabolik”, non “Ginco”. È cosa nota, d’altra parte, che il male fa notizia, e il bene no. Che i bambini amano le armi e giocano alla guerra. Che la follia genera creatività, e la salute è contigua alla ginnastica (per carità, niente di male; ma Juri Chechi non è Van Gogh). E così ho deciso, senza veli, senza giochi di parole, di intititolarla, senza ipocrisie: ”Arte e fascismo” (la mostra, che si tiene al Mart di Rovereto, curata da Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, è aperta fino al 1 settembre 2024, il catalogo è edito da L’Erma di Bretschneider).

Arte e fascismo

Adolfo Wildt, Dux, 1923, Collezione privata.

Cosa nota, cosa nostra, artisti grandissimi, a partire da Adolfo Wildt. Ma La Russa ha in casa busti del Duce. Ce ne faremo una ragione. Sono stati anche, in numero esagerato, in un museo, il Musa di Salò, per volontà di Giordano Bruno Guerri (che ebbe il coraggio di un titolo diretto, sotto specie saggistiche: “Il culto del Duce; l’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini”, e nessuno protestò, come era invece accaduto nella partigiana Serravezza nel lontano 1997). Il tema è utilmente affrontato da Susanna Arangio, nel saggio L’iconografia mussoliniana. Un percorso tra rimozioni e riscoperte nelle mostre italiane dal secondo dopoguerra ad oggi, del 2018. L’ho proposto alle valenti curatrici, Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, e non hanno battuto ciglio (pur essendo sensibilmente tricotillate) e all’impassibile Diego Ferretti; e siamo partiti.

Mario Tozzi, Mattutino (Réverie matinale), 1927. Museo del Novecento, Milano.

Le curatrici hanno sottolineato alcune evidenze. Si tratta degli anni che succedono alle avanguardie, con un rappel a l’ordre che si diffonde in tutta Europa, a partire dalla fine della prima guerra, e culmina nel Picasso classico (tendenza che in Italia investe Virgilio Guidi, Felice Casorati, Franco Gentilini, Mario Sironi, Achille Funi, Massimo Campigli, Mario ed Edita Broglio), nel Morandi metafisico, “classicisti moderni”, già prima del Fascismo. Da questa ricostruzione, via de Chirico e Savinio, nasce (1924) il Surrealismo, con la sua fuga nell’inconscio, quanto di meno fascista si possa immaginare. Non è presente, perché attivo pittoricamente solo prima del Ventennio, dal 1915 al 1921, tra futurismo, astrattismo e Dadaismo, Julius Evola, già oggetto di precedenti, sgangherate, polemiche.

E la storia inizia comunque prima del Fascismo con l’intuizione di una donna, Margherita Sarfatti, che, circondata da uomini impotenti, crea per partenogesi il gruppo di “Novecento”, benedetto a posteriori dal Duce allievo. E questa generazione femminile, senza precedenti in Europa , se si escludono, in diversi ruoli, Gertrude Stein e Peggy Guggheneim, non configura, in moltissimi esempi, un’arte di regime.

Margherita Sarfatti, Mart Rovereto, Fondo Margherita Sarfatti.

Ed è il duce a riconoscerlo all’inaugurazione della mostra di “Novecento” alla Galleria Pesaro di Milano, il 26 marzo 1923: “Non si può fare una grande nazione con un piccolo popolo. Non si può governare ignorando l’arte e gli artisti; l’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano; comincia con la storia dell’umanità e seguirà l’umanità fino agli ultimi giorni. Ed in un paese come l’Italia sarebbe deficiente un Governo che si disinteressasse dell’arte e degli artisti. Dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale. Ci tengo a dichiarare che il Governo che ho l’onore di presiedere è un amico sincero dell’arte e degli artisti”.

Virgilio Guidi, In tram, 1923.

Nei fatti possiamo individuarlo in un capolavoro-manifesto, concepito nel 1922 (ne ho trovato il bozzetto) e pubblicato nel 1923: In Tram di Virgilio Guidi. Vita, popolo, dopo i formalismi delle avanguardie. Ed era già evidente nei capolavori del 1920/1921 di Achille Funi: Autoritratto con brocca blu, Terra, Ragazzo con le mele; Maternità“. Esemplare la sintesi di Daniela Ferrari che, nella coincidenza, separa Arte e Fascismo, consapevole della egemonia e della autonomia culturale di Margherita Sarfatti: “È necessario, a questo punto, tornare all’autunno del 1922, agli eventi che accadono in concomitanza con la Marcia su Roma (28 ottobre 1922) e con l’ascesa al potere di Mussolini. Siamo a Milano, alla Galleria di Lino Pesaro, dove gli artisti Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi si uniscono in gruppo guidati da Sarfatti, la quale vede riflessa nell’opera dei sette pittori la sua idea di ‘moderna classicità’, traducibile con il concetto di sintesi, di ‘assunzione dal reale al vero’, tendente a un ‘ideale di concretezza e di semplicità, limpidità nella forma e compostezza nella concezione’. Va ricordato che il ritorno agli antichi maestri e il recupero dei valori tradizionali dell’arte sono condivisi da altri studiosi che operano parallelamente a Sarfatti, come Ugo Ojetti, e che una necessità di ricostruzione della forma si era già manifestata nella poetica degli artisti gravitanti nell’orbita di ‘Valori Plastici’.

Felice Casorati, Manichini, 1924.

E la critica fascista militante non accetterà il primato di Ojetti e della Sarfatti, che coltivano l’indipendenza creativa degli artisti e che arruoleranno, con testimonianze critiche superbe, su “Emporium” su “L’Eroica” di Ettore Cozzani, su “Dedalo”, ideata e fondata da Ojetti nel 1920, maestri come Medardo Rosso, Libero Andreotti, Adolfo Wildt, Duilio Cambellotti, Vittorio Grassi, Alberto Gerardi, Carlo Carrà, Felice Casorati, Arturo Martini, Massimo Campigli, Giorgio Morandi, Giorgio Morandi, Gino Severini, Francesco Messina, Ottone Rosai, Mario Mafai, Fausto Pirandello, Filippo de Pisis, Scipione, Corrado Cagli, Giorgio de Chirico oltre  al gruppo degli astrattisti Atanasio Soldati, Oreste Bogliardi, Gino Ghiringhelli, Mauro Reggiani e Osvaldo Licini.

È proprio nell’archivio del Mart che troviamo i documenti della contrapposizione tra la Sarfatti (in nome dell’Arte) e Mussolini (in nome del Fascismo), ben riassunti dalla Ferrari: “Di Sarfatti disturbano la libertà e l’autonomia, tali da provocare la reazione feroce del Duce che prende le distanze dalle iniziative di Novecento da lei rappresentato con una lettera di disapprovazione dove si biasima il suo ‘tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo’ sia Novecento Italiano. Ciò che non si perdona alla studiosa è aver svolto un ruolo decisivo agli albori del fascismo non riducibile all’etichetta di amante di Mussolini. Ed è lo stesso Duce, dopo aver goduto dei suoi privilegi, della sua fiducia e del suo denaro, ad accusarla di una tracotanza di cui lui stesso peccava con cecità crescente”.

Di qui, tutta la impeccabile ricostruzione del percorso degli anni Trenta nel saggio della Ferrari, e il ruolo di grandi artisti e grandi promotori come Antonio Maraini, Cipriano Efisio Oppo, tra Biennale, Quadriennale e mostre sindacali, e di uomini di governo illuminati come Giuseppe Bottai, con il coinvolgimento di critici come Roberto Longhi, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan. È la conferma della esigenza, garantita durante il Fascismo, dell’autonomia degli artisti con la piena consapevolezza che il problema dell’arte debba essere un “problema politico come quello della scienza e come in genere tutti i frutti dell’intelletto e della cultura”. Oppo afferma: “Sono convinto che occorre l’autonomia, affinché vengano coordinate con maggiore tecnicismo, le iniziative, le scuole d’arte, i concorsi, i lavori di Stato, le Gallerie, l’espansione all’estero. E sarebbe anche necessario dividere nettamente la Direzione delle cose dell’arte antica, da quella dell’arte contemporanea”.

Fortunato Depero, Duce nel mondo, 1934. Mart, Fondo Depero.

Lo stesso può dirsi per la forza eversiva del Futurismo, che Marinetti tiene vivo senza irregimentarlo nemmeno nelle forme della aeropittura e nonostante l’attivismo propagandistico di Italo Balbo. Paradigma di questo rapporto tra arte e potere è l’esperienza di Fortunato Depero, fascista così convinto da immaginare un’”Officina d’arte fascista Depero”, di cui resta una notevole corrispondenza indirizzata tra l’altro al Ministero per la Stampa e la Propaganda.

Al Mart si conserva la sua “Relazione dei miei rapporti artistici con il fascismo”, presentata come rapporto alle autorità antifasciste di Trento nel 1945: motivando e difendendo i progetti realizzati per il regime, si dichiarava estraneo al fascismo e ricordava le sue collaborazioni con il regime, compiute “perché ordinatomi, perché anch’io dovevo pur guadagnarmi il pane”. Nella bilancia del dare e dell’avere poneva “su di un piatto […] tutto quello che può apparire a mio svantaggio – tutti quelli errori umani e giustificati commessi in buona fede e se si vuol credere per errato entusiasmo o leggerezza d’animo o per incompetenza politica o per perdonabile generosità d’artista”, mentre, sull’altro piatto della bilancia, tutto “il cumulo documentato e riconosciuto di quel patrimonio attivistico-artistico ed artigianesco che ho largamente seminato, offerto ed affermato per 30 anni con quotidiane fatiche, con ininterrotte lotte […] sostenute dalla mia fede artistica che tutt’ora mi anima, a tutto onore ed amore per il mio paese […] per una nuova estetica e una nuova arte”.

Renato Di Bosso,Spiralando sull’Arena di Verona, 1935. Mart, Provincia autonoma di Trento – Soprintendenza per i beni culturali.

Notevole il saggio di Maurizio Scudiero per evidenziare la distanza tra valori estetici e militanza politica. La premessa è di Mino Somenzi, sull’organo ufficiale del movimento (“Futurismo”, n. 27, 12 marzo 1933): il “Futurismo è una forma d’arte e vita; il fascismo una forma politica e sociale: cose diametralmente opposte”. Paolo Buzzi potenzierà: “Estrema sinistra! C’è un solo Futurismo: quello di estrema sinistra” (“Futurismo”, n. 29, 29 marzo 1933). L’anno seguente, il Futurismo, con testimonianze di Aeropittura, è in mostra ad Amburgo e poi a Berlino e Vienna. Il clima culturale è ostile: la mostra scatena polemiche. Hitler perseguita la “entartete Kunst” (arte degenerata). Replica dall’Italia il futurista Prampolini: “Ora che i grandi maestri dell’espressionismo tedesco hanno emigrato altrove e che questa corrente è stata messa al bando, su cosa spera di fondare il nazismo le sue nuove basi estetiche ed artistiche?”. Una posizione che “riflette il tremendo equivoco in cui viene a trovarsi l’avanguardia futurista messa alle strette da una dittatura che mostra il suo vero volto” (Claudia Salaris). Marinetti cerca una mediazione che impedisca analoghe epurazioni anche in Italia.

Fortunato Depero, Fascismo, 1925. Collezione privata.

Nel 1937, infatti, la mostra sull’Arte degenerata di Monaco di Baviera ha una cassa di risonanza su “Il Perseo”, che attacca Marinetti quando parla al Teatro Argentina di Picasso e dell’arte astratta. E agli astrattisti italiani Marinetti offre alle mostre ufficiali lo spazio nelle sale con i futuristi. Osserva Scudiero: “Ed è perciò proprio attorno a Marinetti che si cementa la difesa del Moderno, specie quando, nel 1938, anche in Italia sono emanate le leggi razziali. La rivista ufficiale del movimento, ’Artecrazia’, diretta da Mino Somenzi, ebreo e intellettuale d’avanguardia, diviene l’ultimo baluardo della difesa dell’arte moderna in Italia. Su quello che sarà poi l’ultimo numero, il 118 del gennaio 1939, si pubblicano le adesioni in favore dell’arte moderna che vedono schierati fianco a fianco astrattisti, futuristi, razionalisti, novecentisti”.

(1 – continua)

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