Per un futuro femminista a Centrale Fies

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Intervista ai curatori dell’ultimo progetto Feminist Future di Centrale Fies Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta

Dal 17 al 19 giugno si è tenuta presso Centrale Fies, il centro di ricerca per le arti fondato da Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi, la mostra apap – Feminist future: il risultato di un progetto pluriennale che ha coinvolto artiste e artisti di ogni genere e provenienza, con l’obiettivo di «sperimentare pratiche volte a contrastare le disuguaglianze nelle arti performative contemporanee». 

La collaborazione con il network culturale apap- advancing performing arts project, un progetto che mira a stimolare e sostenere nuovi format artistici a favore di una migliore integrazione nella società contemporanea, permette di sognare insieme un nuovo futuro tramite un programma di «coproduzioni degli artisti supportati, presentazioni, residenze.

Chiara Bersani, “L’animale”

Ma anche un nuovo formato di festival condivisi dalle organizzazioni partner della rete, una scuola femminista itinerante, scambi di apprendimento fuori dall’Europa, iniziative per fornire l’accesso ai gruppi locali alle arti dello spettacolo, un programma di tutoraggio per giovani critici, scrittori o artisti della scrittura».

Un’iniziativa che lascia spazio alla speranza nel potere dell’arte, che ancora oggi può risollevare e mutare un ordine prestabilito e che merita di essere raccontata attraverso le parole di chi ha saputo tradurre in fatti queste parole: i curatori Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta.

L’intervista a Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta

Il Progetto “Feminist Future” deriva da un percorso quadriennale di studio e ricerca con il desiderio di valorizzare la produzione artistica femminile ispirandosi al movimento femminista intersezionale. Da cosa deriva una scelta curatoriale orizzontale e condivisa? Può apportare vantaggi alla realizzazione del progetto? 

Quella che stiamo facendo con apap – la scelta curatoriale orizzontale e condivisa anche con gli artisti e le artiste del network – è una sperimentazione in cui, più che l’esito finale, vale il processo. 

Un processo fortemente voluto da 11 istituzioni di 11 Paesi diversi che hanno sentito la necessità di cambiare molte cose di sé, ma insieme, e all’interno di un lavoro collettivo. L’ispirazione a un femminismo internazionale e senza genere è stata da subito concentrata all’interno delle pratiche organizzative e Centrale Fies, scelta dal network per curarne la parte di identità visiva, ne ha ulteriormente sperimentato una parte proprio all’interno della comunicazione. È stata dunque ridisegnata l’identità visiva con esercizi critici e di immaginazione condivisa e a distanza. Sul vantaggio non sapremmo rispondere, ma sull’ampliare conoscenza e possibilità è stata certamente un’esperienza da replicare.  

Le opere che saranno presentate hanno tutte, ognuna a suo modo, uno stretto legame con la nostra intimità e con la società che ci circonda: in che misura un’impostazione multidisciplinare può aiutare a superare il divario di genere che sussiste ancora oggi nel mondo dell’arte? 

La multidisciplinarietà ha il vantaggio di poter affrontare un discorso artistico e politico su più layer: di colpire l’immaginazione e allo stesso tempo di scavare a fondo. C’è sempre l’obbiettivo non solo di fare arte ma di passare un messaggio e di entrare così nel dibattito pubblico, attraverso lo sguardo del pubblico e della critica. 

Selma Selman, “Viva la vida”

Nella realizzazione del progetto, si è pensato a un target di pubblico preciso oppure il desiderio è quello di intercettare un range vasto ed eterogeneo? 

Non abbiamo mai pensato al target, ma piuttosto di risuonare con i pubblici, negli ultimi anni variabili ed estremamente eterogenei. Venire a Centrale Fies è un atto rischioso, quasi di “fede”; quindi forse il desiderio inconscio è quello di intercettare pubblici coraggiosi.

Il percorso di studio e ricerca quadriennale ha attraversato anche la pandemia. Come sono cambiati e come si sono evoluti i linguaggi e i rapporti? 

Su linguaggi e rapporti interpersonali abbiamo effettivamente registrato la scossa più forte: cime altissime ma anche grandi fallimenti. 

Non sappiamo darne ad oggi una lettura oggettiva, c’è ancora troppa materia incandescente nei lavori, così come sono ancora incredibilmente invasive le ripercussioni su ognuno di noi.

Abbiamo pensato fosse necessario un confronto più serrato, in forma di collaborazioni o co-direzioni, con quella che abbiamo chiamato la “curatela esplosa”, che facesse dialogare pratiche artistiche e curatoriali differenti all’interno del centro di ricerca, invitando diversi curatori e curatrici a prendersi cura di una parte del lavoro, portando avanti anche la loro ricerca personale, quando da loro richiesto o desiderato. 

Louise Bourgeois in un’intervista del 2016, a 96 anni, afferma «L’artista è un lupo solitario. Ulula tutto solo. Il che però non è così terribile, perché lui ha il privilegio di essere in contatto con il proprio inconscio.»  Quanto conta il contatto solitario con il proprio io e quanto conta invece la condivisione con il pubblico? 

Se questa può diventare metafora del lavoro di ricerca e studio compiuto prima di andare in scena o di esporre un’opera, rispetto poi all’incontro con gli sguardi, le letture e la comprensione degli altri, direi 50 e 50.

Ma Centrale Fies da vent’anni mira a intensificare la prima parte, questa della ricerca e della cura, immaginando “il poi” come una cosa che può avvenire dentro il centro – aprendo gli esiti della ricerca al pubblico, come stiamo facendo da due anni – ma anche al di fuori, come nel caso delle produzioni che nascono qui e poi prendono il largo, e che sui social abbiamo appena cominciato a comunicare con l’hashtag #CentraleFiesGoesOut, che racchiude non solo le tournée delle compagnie della Factory (Anagoor, Collettivo Cinetico, Sotterraneo) ma anche gli artisti e le artiste associate come Mali Weil, l3 alumn3 di Live Works o le coproduzioni più grandi. 

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