Massimo Bartolini, chi è l’artista che rappresenterà l’Italia in Biennale

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La notizia è finalmente ufficiale: sarà Luca Cerizza (critico, storico dell’arte, e dal 2006 insegnante alla NABA di Milano) il prossimo curatore del Padiglione Italia nella 60ma Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia, ed è arrivato (anche questo con i crismi dell’ufficialità, sebbene i rumors l’avessero dato già per certo da qualche settimana) anche il nome dell’artista: si tratta di Massimo Bartolini. Certo non si può dire che Luca Cerizza non sia coerente: dopo aver curato proprio la personale al Museo Pecci di Prato “Massimo Bartolini. Hagoromo”, aperta sino al maggio scorso, insieme ad Elena Magini, ed avergli dedicato anche un’antologica, ora dunque lo chiama a rappresentare il nostro paese nel Padiglione Italia della prossima Biennale. Ancora una volta, come nell’ultima edizione, unico artista a dover rappresentare l’Italia, e da solo a dover gestire uno spazio immenso, seppure fortemente decentrato, com’è quello dell’attuale Padiglione Italia, da diversi anni confinato, un po’ infelicemente, in fondo dell’Arsenale.

Il progetto vincitore: un enigma

Massimo Bartolini

Il progetto presentato da Bartolini per il Padiglione Italia avrebbe come tema (qualsiasi cosa voglia dire) la “costruzione di comunità attraverso l’invito all’ascolto”. 

Nel giro di poche settimane, da quando cioè la notizia era trapelata a livello informale, si era già subito passati dalla notizia alla polemica: Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, aveva subito dichiarato ai giornali che “il programma vincitore è poco chiaro, la motivazione parla di un incontro dell’altro, di invito all’ascolto… motivazioni che trovo sostanzialmente incomprensibili. Sono preoccupato”, aveva continuato Sgarbi, “che il Padiglione possa essere ostaggio di una visione intellettualistica”; aggiungendo che bisognerà trovare il modo, con i vertici della Biennale, “che quella del curatore non sia l’unica voce a rappresentare l’Italia in Biennale”. 

Luca Cerizza

Già in tempi non sospetti, del resto, Sgarbi non aveva nascosto di essere contrario all’utilizzo dei 1200 metri quadrati del Padiglione delle Tese delle Vergini all’Arsenale da parte di un solo artista, com’era avvenuto nella scorsa edizione con il costosissimo e faraonico progetto curato da Eugenio Viola con la presenza del solo Gian Maria Tosatti, che per l’occasione aveva pedissequamente trasportato un’intera fabbrica di tessuti dentro l’Arsenale. 

Si ripeterà anche quest’anno, quindi, la doppia coppia al maschile: non sarà forse un caso che il titolo del progetto di Bartolini-artista e Cerizza-curatore sia “Due qui / To Hear”? E sarà, è lecito domandarsi, di nuovo un’immensa installazione ambientale, a mo’ di pomposa scenografia architettonico-teatrale, priva dunque di vere e proprie opere da vedere, ma solo un luogo (o un non-luogo), da percorrere come si percorre una casa, un cantiere, una piazza? La storia dell’artista, a grandi linee, lo farebbe presupporre. Ma procediamo dall’inizio.

Studi da geometra e passione per l’abitare

Massimo-Bartolini, Four Organs, Fondazione Mario Merz, Torino (Foto by Renato Ghiazza).

Chi è dunque Massimo Bartolini? Nato a Cecina nel 1962, in provincia di Livorno, dove attualmente vive e lavora, ha una formazione da geometra: il padre si occupava di ristrutturare case e quindi, come dice lui stesso “era normale che io facessi il geometra”. E questo, come vedremo in seguito, avrà un’influenza decisiva sullo sviluppo del suo lavoro, caratterizzato sempre dal tema dell’abitare e da elementi statici e tecnici che, in molti casi, richiamano spesso proprio gli elementi propri dei canteri edili, come tubi, ponteggi, luci, strutture portanti, porte girevoli, materiali tecnici, etc. Le sue opere oscilleranno infatti sempre tra tensione filosofica e forte presenza delle strutture tecnico-architettoniche: pavimenti rialzati, vibranti, oscillanti, luci al neon, davanzali aggettanti, porte girevoli luminose… ma anche suoni, odori, sensazioni, profumi, secondo una concezione per cui “lo spettatore diventa il completamento dell’opera, la innesca con la propria presenza, ne definisce la proporzione”: “l’opera”, spiega Bartolini in un’intervista, “attende lo spettatore per avere la sua scala di grandezza ma anche di leggibilità emotiva”. Siamo, potremmo dire, nello stesso ambito di lavoro di un altro artista che lavora con la percezione degli spazi, Leandro Erlich (di cui si è da poco conclusa la bellissima mostra a Palazzo Reale a Milano), ma senza la portata di spettacolarità che contraddistingue quel lavoro, rimanendo invece, secondo la tradizione di un retaggio concettuale teso a volte fino al minimalismo, in un ambito di percezione sottile, estremamente mentale. A volte, spiace dirlo, fino all’annullamento della dimensione estetica e formale.

Massimo Bartolini, Senza Titolo (albero e onda), 2004. Progetto per Arte all’Arte 9, Rocca di Montestaffoli, Campo degli ulivi, San Gimignano. Courtesy Associazione Arte Continua, San Gimignano, Italia. Foto Abate

Tornando alla sua biografia, vediamo che Bartolini, abbandonata la professione di geometra, inizia a copiare i grandi maestri secessionisti e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove si laurea nel 1989. Nel 1994 Incontra a Milano il gallerista londinese Alison Jacques, che lo invita a esporre le sue opere nell’abitazione del gallerista Giò Marconi. Per Bartolini inizia così la frequentazione dei “giri che contano”, e alcuni anni dopo inizia la collaborazione con un altro importante gallerista milaneseMassimo De Carlo, con il quale continua a lavorare tutt’oggi, oltre che a essere invitato a manifestazioni importanti in giro per il mondo.

Alberi, piscine e onde meccaniche

Massimo Bartiolini, Senza Titolo (albero e onda), 2004, Progetto per Arte all’Arte 9, Rocca di Montestaffoli,
Campo degli ulivi, San Gimignano. Courtesy Associazione Arte Continua – San Gimignano, Italia.

Nel 1998 presenta un progetto a Carolyn Christov-Bakargiev, una piccola piscina rettangolare mossa da un’apparente onda perpetua, che lo sceglie tra altri per presentarlo nel 2000 nella mostra “La ViIle, le Jardin, la Mémoire” a Villa Medici, opera che è diventata una storia in continua evoluzione esposta inoltre al PS1 di New York e a Documenta nel 2012. Nel 2004 la piscina ingloba un albero, ed è ospitata a San Gimignano da Galleria Continua: “lo spazio è rappresentato dalla presenza dell’acqua resa mobile da un motore che sembra frullare il tempo e segnala la ferma presenza verticale di un albero, piantato esattamente al centro della piscina”, si legge nel progetto. “L’albero è sottratto alle onde che sistematicamente si agitano intorno. L’opera di Bartolini segna l’incontro tra la simmetria della natura e la risposta alla sua statica contemplazione”. Tante parole per dire in fondo ben poco: un albero, posto al centro di una piscina, scosso da onde meccaniche, incubo tecnologico di una natura bistrattata.

Massimo Bartolini – Untitled (Wave), 1997-2012.

L’acqua del resto, come il suono e la luce, ricorre spesso nel lavoro di Bartolini – più come idea, piccole onde d’acqua agitate meccanicamente, come dentro la provetta di un laboratorio – che come reale suggestione fisica o visiva; idee d’acqua anche in altre installazioni: nel ghiaccio che si scioglie, nello stillicidio di gocce che allaga il terreno intorno a una minuscola pallina bianca. Più che sentita, l’acqua è evocata, un ricordo lontano la sua essenza magica di madre di tutte le cose naturali.

Pavimenti bislacchi e stanze claustrofobiche

Massimo Bartolini, Casa di Francesca Sorace, Firenze, 1993. Courtesy the artist

Altri elementi molto praticati da Bartolini sono i pavimenti. Le sue installazioni sono spesso basate su pavimenti fuori norma, come quelli di un geometra ubriaco. Nel 1999, alla sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia curata da Harald Szeemann, dal titolo “dAPERTuttO”, l’artista presenta un’installazione dove la stanza assume l’aspetto esteriore di una capanna e l’elemento luminoso è il pavimento.

Massimo Bartolini, Pavimento a occhi chiusi, legno di ramino, fettuccia per tende, dimensioni determinate dall’ambiente
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino.

Già prima, nel 1993, una normalissima stanza, a casa dell’amica Francesca Sorace, a Firenze, aveva un pavimento di piastrelle, leggermente rialzato, cosicché i mobili erano mezzi infossati nel pavimento, quasi fossero vittime di uno strano terremoto; nel 1994, da Giò Marconi, presentava un pavimento oscillante; nel 1997, alla British School di Roma, un pavimento che provocava anch’esso l’idea di qualcosa di insolito: soffitto troppo basso, posizione alterata delle finestre. C’è poi il Pavimento a occhi chiusi, in mostra alla galleria De Carlo di Milano, sempre nel 1997, nato dall’idea di “camminare sulle palpebre di un gigante”: a sentirla così, l’idea è molto suggestiva: peccato che si risolvesse semplicemente in uno spazio angusto ricoperto da due semplicissime veneziane in legno, su cui si poteva camminare.

Anche alla Rotonda della Besana, nella bellissima mostra “Stanze e segreti” curata da Achille Bonito Oliva nel 2000, la stanza di Bartolini è tutta mentale e poco suggestiva: è, anzi, claustrofobica, una piccola stanzetta triste, ornata di sedia, lavatrice e l’immancabile tecnigrafo, retaggio del suo passato da geometra, e attraversata da pali che sorreggono un altro ambiente, al quale si può accedere, tramite apposita scaletta, a vedere una specie di stanza-cielo, metafora forse di un qualche paradiso, gioco di ambienti uno sopra l’altro già sperimentato l’anno precedente a Napoli, nella rassegna “Effetto notte. Percorsi d’arte e di luce nella Napoli sotterranea”, costituito anch’esso da banali librerie e da un lettino. Anche in questo caso, attraverso una scaletta ci si affacciava su una stanza-cielo dal soffitto luminoso.

Cataste di legna e rifiuti 

Massimo Bartolini, Deposito, 2013, Fusione in bronzo, cm 60x130x50.

Ma le opere di Bartolini, se nel racconto che ne viene fatto assumono spesso una dimensione immaginifica e quasi sognante, spesso sono, visivamente, assai semplici, minimali, al limite dello sconfortante: ecco allora una catasta di legna, ma realizzata in bronzo, appoggiata in un angolo di una stanza (Deposito, 2013); ecco un mazzo di fiori appoggiato tra due tristi sedie da ufficio (Per Amore, 2013); ecco un badile, ma con, al posto del manico, un bastone di legno non lavorato (Senza Titolo, 2011).

Massimo Bartolini, Per Amore, 2013, Sedie Cesca con ripiano in alabastro, cm 80×114×56.

Nel 2013, invitato al Padiglione Italia alla 55a Biennale di Venezia, allestisce una rampa bassa in uno spazio aperto, costituita da un cumulo di macerie di bronzo: “una scultura enigmatica e che invita lo spettatore ad una nuova prospettiva dello spazio”, recitano i testi di accompagnamento.

Massimo Bartolini, Padiglione Italia, Biennale di Venezia 2013.

E l’artista: “In questi tempi mi sembra di essere al di sopra di una cuspide, tra due stagioni: quella precedente dell’ottimismo monumentale e l’ultimo, di un sobrio rigetto che porta ad una riduzione riflessiva. Costruire un monumento fatto di macerie è come festeggiare una fine, che a sua volta è l’inizio di un possibile ponte tra queste due stagioni e rivela il paradosso della loro convivenza”. Molto per l’artista, forse, nel suo soliloquio con se stesso, e per i critici che lo inneggiano, ma per lo spettatore della Biennale non è altro che una triste distesa di rifiuti.

Concerti per microfoni e tubi innocenti

Massimo Bartolini, “Hagoromo”, veduta dell’installazione al Centro Luigi Pecci di Prato, 2022. Fotografia di Ela Bialkowska/OKNO Studio. Courtesy l’artista e Centro per l’arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato

La sua ricerca, abbiamo visto (e come dice lo stesso artista), risente degli studi fatti: basti pensare all’installazione fatta al Museo Pecci, dove l’artista ha costruito una parete continua di tubi innocenti, che a primo impatto può ricordare un ponteggio, che si snoda attraverso sette delle dieci stanze del nucleo originale del Centro Pecci, trasformandola in uno strumento musicale in cui i tubi diventano, attraverso apposite modifiche, delle canne d’organo. Nessuno spazio all’estetica (solo un freddo succedersi di tubi), ma solo alla percezione sottile della musica. Il musicista inglese Gavin Bryars – uno degli esponenti più importanti della musica di ricerca emersa tra gli anni Sessanta e Settanta – compone infatti una partitura polifonica per quest’opera, in cui ogni melodia corrisponde a una stanza diversa. La stanza insomma non andrebbe vista (perché visivamente è ben poca cosa), ma andrebbe invece “sentita”, vissuta, ascoltata. 

Un’altra sua opera legata alla musica è quella che presenta nel 2017 alla Fondazione Merz di Torino dal titolo Four Organs, progetto che prende il titolo da una delle composizioni del musicista della minimal music americana Steve Reich. Stando alla prsentazione della Fondazione, “il progetto espositivo è composto da 6 installazioni, quattro organi e una ‘macchina da maracas’ che sono collocati nella grande sala espositiva all’interno e un’opera luminosa che si trova nello spazio esterno. La mostra prende il titolo dalla composizione musicale di Steve Reich, Four Organs del 1970.

Massimo Bartolini, Hagoromo. Centro Pecci, Prato, 2023. Foto di Ela Bialkowska OKNO Studio.

La cadenza di Four Organs orienta ed unisce le 4 differenti acustiche degli organi in un quartetto completamente inedito. I quattro strumenti eseguono un concerto che attraverso il riverbero, le sovrapposizioni armoniche e la stessa dislocazione degli organi negli ampi e luminosi spazi della Fondazione, altera la percezione stessa dell’architettura”. “La musica è parte integrante del mio lavoro”, dice l’artista in un’intervista rilasciata al “Corriere”: “molte mie performances sono legate imprescindibilmente a delle tracce sonore solitamente curate dal compositore Edoardo Marraffa, con il quale collaboro dall’89, oppure sono opere create proprio per ‘suonare’ come Drums, un pavimento flottante sopra il quale gusci di noci rotolanti, accompagnavano il ritmo della ballerina Lucia Biondo danzante sulla superficie”. 

L’opera si ascolta, dunque. Fantastica, forse, per un fruitore non vedente. Chi invece utilizza anche la vista, si troverà di fronte un’amara sorpresa: ancora tubi, microfoni, freddi e meccanici meccanismi sonori. Un triste tripudio della tecnica, che toglie qualsiasi magia alla pretesa “relazione” con cui il fruitore dovrebbe approcciarsi all’opera.

Dai tubi innocenti agli scaffali Ikea (poco evoluta)

Massimo Bartolini, Laboratorio di Storia e storie, 2003, Cappella Anselmetti, Torino.

Negli anni 2000 Massimo Bartolini collabora al restauro della Cappella Anselmetti nel quartiere Mirafiori, a Torino, con un intervento ambientale dal titolo Laboratorio di Storia e storie. La Cappella Anselmetti è una cappella barocca, che era chiusa da anni a causa del progressivo degrado architettonico, ultimo lascito di uno scomparso complesso rurale. Il suo intervento, lungi dal voler ridare dignità estetica alla Cappella, è un esempio di funzionalismo di ambito sociale, che potrebbe magari piacere a qualche assessore alle politiche sociali (“l’opera nasce dalla ricchezza di un gruppo di insegnanti che seguono un percorso educativo sulla storia del quartiere”, recita il progetto), ma che farebbe accapponare la pelle a qualunque storico dell’arte, perché costituito da un “un sistema di scaffali”, figli di un’estetica Ikea (poco evoluta questa volta), “destinato a ripristinare le viste della cappella e proseguire le stanze adibite ad archivio e laboratorio con la funzione di custodire i materiali didattici”. Insomma, se l’opera può avere valore dal punto di vista sociale, dal punto di vista architettonico è uno sfregio belle e buono, di quelli che farebbero esclamare al visitatore: maledetti geometri!

Massimo Bartolini, Bookyard, St. Peter di Gand (Belgio), 2012.

Ancora scaffali: nel 2012, con Bookyard, l’artista realizza un’installazione su un pendio del vigneto dell’abbazia di St. Peter di Gand (Belgio), in occasione di “Track”, manifestazione artistica in cui 41 artisti riflettono sugli spazi pubblici cittadini. Siamo nella campagna belga: stupenda, armoniosa, a tratti divina, vorremmo dire, come sa esserlo ad esempio la campagna toscana, da cui pur Bartolini viene. Eppure, l’armonia della natura viene tristemente rotta: ecco infatti che l’artista mette in scena un progetto che ha come fulcro i libri, e i relativi scaffali che li conservano. Ancora una volta, nessuna concessione all’estetica: anzi. Non sono scaffali antichi, pregni di tempo o di memoria: no, sono scaffali moderni, funzionali: Ikea, per intenderci. Ogni scaffale contiene libri (come avviene in ogni biblioteca, per altro), e i visitatori, udite! udite!, possono persino prenderli in prestito o comprarli. I profitti, avvertono gli organizzatori, saranno devoluti in beneficenza. Insomma, una via di mezzo tra la biblioteca di quartiere e la libreria. Peccato che sia realizzata, con un brutale intervento, nel mezzo della splendida campagna belga

Il paesaggio, questo sconosciuto

Massimo Bartolini, El Jardì de Roses, 2007, Intervencions d’artistes a CaixaForum, Fundaciòn La Caixa, Barcelona. Courtesy the artist.

Nel 2007, invitato alla Fundaciòn La Caixa di Barcelona, la sua installazione è – o dovrebbe essere – un giardino. Si intitola infatti El Jardì de Roses. È composto di rose, di fiori, di quei meravigliosi elementi di cui la natura ha generosamente fornito la terra? No, assolutamente: dei fiori c’è solo il profumo. Il resto, è una scatola grigia chiusa su ogni lato, a dispetto del suo titolo ossimorico, poiché all’artista interessa rendere percepibile ciò che è invisibile attraverso odori o astrazioni di elementi. Paradossi dell’arte un tempo chiamata “visiva”, dove la visione oggi è lasciata solo alla sua evocazione, al suo ricordo lontano.

Massimo Bartolini, Finestra su finestra, 2002, stanza in cartongesso, scala in legno, pavimento in piastrelle, lavandino, rubinetto, acqua, Plexiglas. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino.

In Finestra su finestra, esposto invece nel 2017 nella Manica Lunga del Castello di Rivoli in occasione della mostra I Moderni”, Bartolini rivolge il suo interesse verso le alte finestre che contraddistinguono questo ambiente seicentesco, anticamente adibito a pinacoteca della famiglia Savoia. Focalizzando l’attenzione sulla percezione del paesaggio circostante, ricrea una piccola stanza con il pavimento in salita verso la finestra modificata e provvista di piccole aperture verso l’esterno. L’aria entra dalle fessure della finestra mentre dell’acqua sgorga, invece che dal rubinetto, dal tubo di scarico di un lavandino installato nella stanza. Anche in questo caso, nessuna concessione all’estetica: l’ambiente è spoglio, l’atmosfera un po’ allucinata, da cella obitoriale. Unico vero protagonista, il paesaggio che si intravede fuori dalle finestre. Ma c’era davvero bisogno di un intervento così invadente e gelidamente necrofilo per mettere l’accento sulla bellezza del paesaggio piemontese?

Luci al neon e lampadine

Massimo Bartolini, Caudu e Fridu, 2018, Palazzo Oneto di Sperlinga, Palermo.

Altro elemento importante per Bartolini è la luce: lampadine, luci al neon, luci diffuse o soffuse. “Dalle mie parti per ‘luce’ si intende anche la corrente elettrica quindi io utilizzo sempre la luce. La luce è un mezzo perfetto per visualizzare astrazione, per far accadere un sentimento”, ha detto in un’intervista. E ancora: “L’uso che faccio della luce è piuttosto semplice e uso lampade poco sofisticate, tubi fluorescenti ad accensione elettronica e lampade a ioduri… per la gestione elettronica degli impianti invece mi rivolgo a degli esperti che realizzano per me dei congegni di attuazione”.

Massimo Bartolini, Anche oggi niente, Maxxi, Roma, 2008.

L’attenzione per la tecnica sfiora quasi l’ossessione: descrivendo il suo lavoro sulla facciata del Maxxi di Roma nel 2008, dirà: “Era una campitura di 250 luci ‘Chiaro’ di Zumtobel per un’estensione di 3 x 23 metri disposta su un ponteggio, una frase appare attraverso la caduta di 100 lampade e rivela una scritta: ‘Anche oggi niente’. Il lavoro è posizionato tra il grande cantiere del nuovo museo e una chiesa. Entrambe icone dell’amministrazione di distanze: l’una verso il dio, l’altra verso il cantiere del nuovo museo, icona del costruire… Tecnicamente la parte più difficile è stata la realizzazione del sistema di sgancio che doveva essere economico ed efficace e far cadere solo certe lampade ad un tempo stabilito”.

La prevalenza della tecnica

Massimo Bartolini, Otra Fiesta, 2013, impalcatura, somiere, ruota dentata, ventola, legno, motore. Fondazione Merz.

Già, nel lavoro di Bartolini c’è sempre una forte presenza del linguaggio tecnico, e di tecnici specializzati: carpentieri, elettricisti, geometri, ingegneri. L’attenzione non solo alla filosofia del costruire, ma alla pratica stessa della costruzione (tecnica, materiali, etc.), è infatti rimasta fondamentale nel suo lavoro. Al punto che, nel 2019, l’artista dedica una lectio magistralis al MACRO di Roma a chi costruisce materialmente i suoi lavori, dal titolo Realizer, dove appunto omaggia gli artigiani del mestiere: “Dove c’è costruzione c’è forma e la forma è presenza totale. Per questo non sono possibili esitazioni. Le esitazioni hanno comunque un loro posto: il progetto. Se al progettista spetta il mondo dell’immaginazione e poi quello della ponderazione, al realizzatore spetta quello apparentemente umile e univoco della materia. Nella sua mano il talento e la sensibilità sono archetipici e non permettono bugie”.

Masssimo Bartolini, In a Landscape, 2017.

Un inno, più che alla filosofia e alla magia sottese all’abitare, al suo impianto strutturale e tecnico. Se tanto ci dà tanto, al Padiglione Italia, dopo l’immensa fabbrica dismessa di Tosatti, prepariamoci a un immenso cantiere, “icona del costruire”. Speriamo, per lo meno, che percezione, stupore e magia abbiano per una volta la meglio sulla mera tecnica.

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