L’organicismo pittorico spaziale di Lluis Lleò

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Nato a Barcellona nel 1961, Lluis Lleó è noto per la sua particolare tecnica che crea un “organicismo pittorico spaziale”, a lui tramandata dal padre che visse per più di un anno in Italia, innamorandosi degli affreschi di Giotto, Cimabue e Piero della Francesca. La sua unicità artistica gli è valsa la presentazione dell’opera pubblica “Morpho’s Nest in a Cadmium House”, esposta tra la 52esima e la 56esima strada di Park Avenue a New York (onore riservato solo ad una decina di artisti nella storia, tra cui Haring e Christo). 

Quest’anno, per la prima volta, approda anche in Italia con la mostra “Pittore a Ercolano”, inaugurata lo scorso 27 gennaio presso Villa Campolieto. 

Cuore della personale è l’installazione “The Perfect Year”: una struttura circolare in acciaio, rivestita in terracotta, dipinta ad affresco e formata da 365 blocchi che compongono un percorso di vita personale. Iniziata nel 2008, dopo un anno dalla morte dell’amato padre, l’opera rappresenta un cerchio spazio-temporale che racchiude in un simbolico diario intimo paesaggi, date, presenze e assenze dell’artista.

In questa intervista Lleó racconta il suo speciale rapporto con il nostro Paese e svela l’importante ruolo dell’arte nel nostro futuro.

Il rapporto con le città nelle quali ha vissuto ha avuto molta influenza nella trasformazione della sua produzione artistica. In tal senso, quali sono state le differenze tra New York e Barcellona? 

Percepisco le città come esseri viventi con caratteristiche, qualità, difetti e personalità paragonabili a quelle delle persone. Da quando, a metà degli anni ’70, ho deciso di dedicare la mia vita alla creazione artistica, o meglio, da quando mi sono dichiarato ufficialmente pittore, ho sempre sognato di vivere a NY. 

Mi ero recato a Parigi quando avevo 17 e 18 anni, da solo, e sebbene fossi rimasto affascinato dalla città e da tutto ciò che era legato alla storia recente dell’arte e agli artisti che ammiravo, ho sempre provato un senso di nostalgia. Per me, a quel tempo, Parigi era una città che era stata. Una città del passato, forse. Nella mia mente NY rappresentava l’ignoto, il nuovo, l’audace. Barcellona, dove ho vissuto fino a 27 anni perché era la mia città, risvegliava in me un certo senso di routine e di inevitabile ripetizione. Era la città dove avevo imparato a dipingere, ma era anche la città che poteva diventare una strada senza uscita. Arrivando a NY ho aperto le finestre e le porte della mia testa e ho sentito che in qualche modo ero nato di nuovo.

NY negli anni ’80 e ’90 era un paradiso per chi, come me, cercava di conoscere e sperimentare l’ignoto. Lì tutto sembrava possibile. Automaticamente, diventando un newyorkese, ho iniziato a idealizzare la città che avevo lasciato. In questo modo sono diventati per me due luoghi complementari. Non ne percepivo uno senza l’altro. Uno mi aveva visto crescere, l’altro mi offriva tutte le possibilità per continuare a crescere. Per me non esiste l’uno senza l’altro e a volte penso che siano la stessa città vista da posti diversi. Qui tutto era impossibile. Lì tutto sembrava possibile. Ora, dopo il mio ritorno 6 anni fa, mi sento ancora lo stesso. Ma l’uno non esiste senza l’altro.

L’Italia è un altro luogo con il quale ha una forte connessione. Ad esempio, prima della mostra a Ercolano, ha vissuto per un breve periodo a Stromboli che ha definito “Un luogo immaginario che esisteva realmente”. Ci sono altri luoghi nel nostro Paese che la attraggono in modo simile e se sì, perché?

La mia storia d’arte immaginaria si svolge in Italia. Quando avevo 14 anni e dopo aver sentito mio padre parlare con ammirazione e amore dell’Italia che conosceva bene, mangiando un giorno in un ristorante con la mia famiglia, mi si avvicinò un uomo italiano che stava girando un documentario su Michelangelo e il suo David. Guardandomi chiese ai miei genitori se potevo interpretare il ruolo del giovane David nel film. Mi ha fotografato mentre posavo come modello per la scultura e non l’ho più sentito. Questo ha avuto un grande impatto sulla mia vita e ha creato un legame immaginario con l’Italia e soprattutto con la pittura rinascimentale. In seguito sono stato a Pompei, Ercolano e qualche mese a Stromboli.

Ho iniziato a dipingere affreschi e Piero della Francesca o Giotto sono diventati i miei pittori di riferimento. Ho sempre saputo che il mio lavoro sarebbe tornato in Italia, ma non avrei mai immaginato di farlo in modo così poetico come ho fatto esponendo le mie opere in Villa Campolieto. Quando ogni giorno attraversavo in bicicletta il ponte di Brooklyn per andare e tornare dal mio studio, pensavo di non essere lontano da un quadro di Venezia dipinto da Canaletto.

In The Perfect Year il cerchio è lo spazio metafisico e fisico che permette la comunicazione tra l’arte e la realtà. Ci può raccontare come il simbolo si innesta nella fase creativa del suo lavoro e come esso si fa portavoce della sua poetica?

The Perfect Year e iniziata quando è morto mio padre. Era ed è il mio modo di tenerlo in vita. In un certo senso ho sempre avuto paura di non dare allo spettatore abbastanza elementi per capire come si svolge il mio processo creativo. Allo stesso tempo l’organizzazione di 365 affreschi in un cerchio dà la possibilità allo spettatore di entrare in un quadro e, di conseguenza, in un certo senso di entrare nel mio cervello, il cervello di un artista. L’anno perfetto è un diario e anche una dichiarazione. Utilizzando tecniche antiche ho creato qualcosa di nuovo. Ho sempre sognato di vivere all’interno di una pittura. 

Negli ultimi anni, l’arte installativa sta avendo sempre più successo, soprattutto grazie alla capacità di attrarre un pubblico più vasto ed eterogeneo. Cosa vede nel futuro prossimo del nostro settore, in quali forme si evolverà? Troverà un dialogo più aperto con il pubblico?

Nell’arte tutto è possibile. Come tutto è genuino. Vediamo nuovi ed entusiasmanti artisti sempre. Grandi idee e grandi risultati. Non ci sono limiti nella creazione. L’unico limite è l’autenticità. Fortunatamente un affresco di Ercolano è nuovo come l’ultima istaurazione 3D. L’arte non si accumula. Ciò che è buono sarà sempre in vigore. Goya è sempre nuovo. Anche Piero o Fra Angelico. 

Parlando sia di futuro sia di luoghi: stiamo vivendo un periodo storico intenso, nel quale i giovani si sentono spesso spaesati. In quest’ottica, quale messaggio dovrebbe riuscire a trasmettere l’arte, per aiutare le nuove generazioni a trovare posto nel mondo? 

Credo che la pratica dell’arte sia una delle più nobili a cui gli esseri umani possano aspirare. In un mondo che spesso si erge come un muro invalicabile davanti a noi e soprattutto davanti alle giovani generazioni che cercano il loro posto e il loro significato nella vita, l’arte è uno dei pochi modi per portare luce e creare delle fessure attraverso le quali vedere oltre. In generale, l’artista dà e si aspetta poco in cambio. Forse è questo il modo di affrontare il problema del futuro. La generosità, a mio avviso, è una delle poche vie d’uscita. L’arte ha la capacità e in un certo senso l’obbligo di smuovere, mettere in discussione e mostrare nuove possibilità di vedere la vita.

Mostra

Lluis Lleó                                                                                                                            

PITTORE AD ERCOLANO

Dal 27 Gennaio fino ai successivi due mesi.

Villa Campolieto

Corso Resina, 283 – 80056 Ercolano, NA

Orari: martedì-venerdì 10.00-18.00; sabato e domenica 10.00-13.00; lunedì chiuso

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