Il fallimento della cultura: il pensiero di Adorno in dialogo con il presente

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27 gennaio, giornata internazionale dedicata alla Memoria della Shoah. La commemorazione annuale relativa alle vittime dell’Olocausto ebraico ci conduce alla riflessione sui fatti accaduti in un passato lontano-presente e sulle ragioni storiche che portarono alla morte milioni di persone innocenti. Nel secolo “breve” precedente al nostro, la malvagità umana toccò vertici di brutalità e violenza sistematica senza precedenti nella storia e il ricordo di ciò che fu costituisce una necessità storica: affinché sia possibile costruire e vivere in un mondo conscio del proprio passato, delle proprie responsabilità in materia di diritti umani e diretto alla costruzione di sistemi politici e di vita il più possibile democratici e tesi alla cura dell’altro. 

Adorno fu un filosofo-pensatore tedesco, emigrato negli Stati Uniti nel 1938 a causa della propria origine ebraica. Tutta la sua produzione intellettuale, successiva allo sterminio, è dedicata all’analisi di ciò che rappresentò per la storia umana il genocidio per mano nazista, costituendo in tal modo una cesura netta nelle possibilità di riflessione umanistiche. Adorno si interroga sulla morte simbolica del pensiero critico che portò alla normalizzazione di tale violenza, evidenziando l’importanza fondativa della Memoria come unica possibilità di integrazione del dolore e del silenzio originatosi dai fatti avvenuti nel secondo conflitto mondiale.

Ogni riflessione successiva sulla natura umana, sull’arte come espressione individuale e collettiva, sulla politica come strumento di dominio e potere, sul rapporto fra Bene e Male (in termini di legge, responsabilità e colpa) non può esistere senza una presa di consapevolezza pura di ciò che fu lo sterminio ebraico. Primo Levi, nell’opera I sommersi e i salvati (1986) analizza nel profondo il sistema concentrazionario e le ragioni sociali che portarono alla segregazione dapprima e alla deportazione successiva nei campi di sterminio (dando ampio spazio alle modalità di strutturazione dell’eliminazione altrui perpetrate da Hitler e i suoi collaboratori). Levi dedica un capitolo alla Memoria e fa della necessità di ricordare, ovvero di testimoniare, l’unica possibilità di cambiamento della coscienza di chi crede che esista una ragione nella superiorità-prevaricazione sull’altro.

La violenza necessita di sedimentazione, si nasconde subdola negli stereotipi che si celano nella relazione con l’altro, nelle scelte individuali indifferenti nei confronti della propria storia-origine e nel potere che il denaro (come strumento e ragione di conquista) è in grado di produrre. Come è possibile non assumere una posizione di denuncia relativa alla soppressione totale dell’altro, come è possibile utilizzare giustificazioni prive di fondamento per difendere la persecuzione, soppressione e morte? Nel conflitto non esiste verità, ma solo sofferenza e sangue.

I fatti attuali del conflitto israele-palestinese ci parlano di una violenza omicida inaudita, di una assenza di empatia che sembra appartenere a macchine non pensanti, di una efferatezza tesa alla cancellazione totale di ogni presenza viva, della cultura come abbraccio globale che ci accomuna. Ed io, che appartengo a questo mondo europeo-occidentale, corresponsabile e complice (per decisioni politiche) della storia di queste due nazioni, come posso negare che le condizioni di questa esistenza potrebbero far si che ci sia io lì, in mezzo alle bombe, alla miseria, alla fame, alla distruzione senza confini di ogni respiro? In questo secolo globalizzato che ci ha abituato alla sofferenza sotto forma di immagine, il peso della responsabilità propria sembra assumere una gravità ancora maggiore.

Ecco che la Memoria, questo valore dal sapore metafisico, ma concreto, che bisogna proteggere e nutrire come strumento di formazione e divulgazione, diventa una goccia di speranza nel mare di dominio sull’altro a cui assistiamo quotidianamente. Bisogna che la voce di coloro che furono e vengono uccisi, a cui fu e viene negata la dignità, il diritto di esistenza, la libertà, torni a suonare e cantare contro la brutalizzazione e umiliazione dell’altro (l’umanità come germe di nascita comune dove risiede se non nella nostra coscienza?).

Concludo questa riflessione con le parole di un poeta straordinario, Mahmoud Darwish, i cui canti (ricordo la raccolta Inni universali di pace dalla Palestina) costituiscono una testimonianza sacra, la speranza viva di unione, nel tentativo ultimo di appello al Bene che abita ognuno di noi. La Memoria insegna a distaccarsi dal proprio bisogno individualista, la Memoria accoglie e fortifica il sentire comune (nel dolore stesso del nostro passato che ci ha visto vittime e carnefici), abbraccia la sofferenza altrui e muta l’indifferenza in Cura. E così, “mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, coloro che hanno perso il diritto di esprimersi“.

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