Non tornerà più, non tornerà a casa, non girerà curioso le contrade e le locande d’Italia, accompagnato da un amico complice e sempre frettoloso. Gaetano Pesce se n’è andato per sempre, lasciando i suoi amici increduli in Italia, dov’era anche quando non c’era: Stefano, Giovanni, Francesca, Sara, Sabrina, Davide. Gaetano aveva trovato e portato l’Italia in America; non era solo un artista, un architetto, un inventore, festoso erede di Leonardo, ma era un uomo pieno di umori e malumori, nemico e amico del potere, certo di cambiare il mondo, disturbato dal non riuscire a farlo.
Lo conobbi a Los Angeles tanti anni fa presentando una sua mostra all’Istituto italiano di Cultura, voluta da una direttrice, Francesca Valente, intraprendente e appassionata. E non ci siamo più separati. Abbiamo condiviso progetti e idee. Gli ho affidato il mio più prestante e volenteroso assistente, che gli era molto piaciuto: Stefano Morelli. Insieme potevano, se non cambiare, spostare il mondo. E lo fecero.
Alla Biennale di Venezia, Pesce portò un’Italia crocifissa e rovesciata, che avrebbe suscitato polemiche, da me sopite, nella Padova leghista. Ma inventò anche due troni, per ospitare ignuda una donna bellissima, Vittoria Risi, conosciuta e ammirata come pornostar, e un uomo nudo meno (per lui e per me) attraente: un re e una regina. Fu una gran festa,e per lui un orgasmo.
Tutti li videro, tutti ne parlarono, mentre da terra s’incrociavano le gambe nel marmo di Carrara di altri Dei, nell’invenzione di Filippo Dobrilla, un altro amico perduto. Due mondi dialogavano. Stefano faceva il ponte con i meravigliosi pani della Pasqua venuti da San Biagio Platani. Chi non ha visto, in quel Padiglione Italia finalmente vivo – quest’anno (con Massimo Bartolini, ndr) definitivamente ucciso –, non sa cosa ha perduto.
Il motore di Pesce era sempre acceso. Lo era stato con Davide Rampello alla Bovisa, edificando una casa di gomma rosa; lo era stato a Firenze, con la grande scultura della Maestà tradita, in Piazza Santa Maria Novella.
Aveva inventato, in parallelo con Emilio Ambasz, il grattacielo vegetale, tristemente copiato dal tristo Boeri, da lui odiato, con sanguigna furia. Era corso a Milano per stendere il pavimento patriottico per il Padiglione Eataly, voluto da me e da Oscar Farinetti, per la mostra “I tesori d’Italia”.
Mi aveva raggiunto a Ferrara per portare una nuova “Maestà offesa” colpita da frecce maschili nel “Parco delle sculture” alla Fiera, tra inutili polemiche di una sinistra ignorante e rabbiosa.
Tutto con lui era gioco e invenzione. Mi telefonava da New York per dirmi idee, progetti, incredulità, speranze e delusioni dei governi. È stato l’ultimo grande inventore di forme,un artista come un cavallo di Troia nel mondo degli architetti e dei designer. Credeva, con le sue invenzioni, in una materia duttile come la creta per Dio, di poter cambiare il mondo. Gaetano Pesce non rispondeva ai potenti, intendeva aiutarli ad esserlo. Con la sua attività generatrice, contro il grigio del vetro e del cemento, aveva colorato il mondo con i suoi oggetti e le sue fantastiche architetture. Andava oltre per raggiungere confini inviolati: oltre l’architettura. Il suo pensiero era aperto,e lavorava con l’uomo, come se le opere avessero corpo e anima. Il suo fiato.
Mi chiedeva di Draghi, della Meloni. Voleva fare qualcosa di memorabile per la sua Italia, ferita, abbandonata. Volle incontrare Silvio Berlusconi, e vi fu una cena memorabile, piena di olgettine gonfiabili, più nella fantasia che nella realtà. Con Stefano Morelli lo riportammo a Milano per una grande retrospettiva al Museo della città, travolto fino a diventare una capsula spaziale. E così fece durante la Fiera del Mobile, in un negozio (quello di Bottega Veneta, ndr) di via Montenapoleone trasformato nella caverna di un serpente.
Invenzioni, e una fiducia cieca nella tecnologia, nella chimica, negando il design nel praticarlo. Ogni oggetto era come una persona, animata da vita propria, non poteva essere un multiplo: divano, tavolo, sedia, vaso, gioiello, sono un mondo di individui creati da una divinità delle forme che agiva in lui, prolungamento della divina creazione.
Il suo pensiero era mobile, le sue idee infinitamente mutevoli. Non voleva credere che uno dei suoi eterni vasi in poliuretano potesse essere marcescibile, si sgretolasse come un intonaco, preso da un cancro della plastica. Non poteva credere che la materia morisse. Allora esiste il male! Glielo dissi. Amareggiato me ne mandò un altro, ancora sano, di più resistente resina. La morte del vaso era stato un caso. Tutti gli altri vita, vita, vita.
Come la sua. Ma anche lui, nonostante che non volessimo crederci, doveva finire. Mai oggi, come è stato, sempre domani per un patto con il diavolo. Ed è la morte, la fine. La sua morte. Incredibile come la sua vita. Italiano in America, riconosciuto ovunque, chiamato da ultimo in Cina per altre mostre stupefacenti, con oggetti sempre nuovi, era incredibilmente nato a La Spezia, luogo riparato, sublimato dalle Cinque Terre, ma in tutto e per tutto sembrava veneto, di terraferma, come il suo profeta e precursore Carlo Scarpa.
Come Scarpa era originale, beffardo, imprevedibile. Sembrava tornare a casa, a Monselice, a Montagnana, a Thiene, a Mestre, a Marostica. Da ogni luogo mi chiamava raccontadomi la meraviglia di una locanda, come erano quelle frequentate da Comisso e De Pisis negli anni Quaranta.
Venezia era la sua casa interiore, l’acqua il suo elemento. Con Stefano Morelli aveva ricreato Venezia al Maxxi, in una delle sue innumerevoli incursioni italiane. Per me venne a Sutri, portando il modello delle sue Twin towers, indistruttibili e irrealizzate.
Ci eravamo detti di rivederci in aprile, al suo prossimo ritorno. È Aprile ed è morto. Aprile il più crudele dei mesi, dice Thomas Eliot. ”Non è possibile Pesce”, mi scrive una amica amata.
Lo aspetteremo invano. Come invano lo abbiamo aspettato quando, sorpreso da Salvini per il progetto del ponte sullo stretto, mi chiamò per potergli parlare, e dirgli: “Va fatto, va fatto. Non come una linea retta. Ma come un serpente, un labirinto che s’insinua tra Scilla e Cariddi e ne vanifica il sortilegio”.