Bartolini al Padiglione Italia: musica, vuoto, meditazione. Ma è questo che ci serve in un momento così complesso?

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Se la canta e se la suona. Potrebbe essere questo il titolo, per la verità un po’ malizioso, del prossimo Padiglione Italia, quello di Massimo Bartolini per la Biennale Arte 2024, che sarà dedicato, ci anticipano le cronache, a “un invito all’ascolto” e, attraverso l’ascolto, a una “riscoperta di sé”, attraverso installazioni ambientali, ma soprattutto musicali. La conferenza stampa di qualche giorno fa presso il Ministero della Cultura, a Roma, ha infatti raccontato poco, anzi pochissimo, della veste materiale (leggi: visiva) che prenderà il progetto di Bartolini, e molto, anzi moltissimo, di quello che starebbe a significare. “Esploreremo il carattere metaforico dell’ascolto ma anche quello fisico, gli spazi delle tese risuoneranno nella loro naturalezza, con il loro fascino, senza tentativi di musealizzazione”, ha detto il curatore Luca Cerizza. E Bartolini: “l’installazione non produrrà architettura, ma suono”, perché sarà “una struttura che non occupa spazio, ma lascia passare tutti e passa attraverso tutti, generando comunità temporanee unite proprio dall’ascolto di una stessa fonte”: “lo sforzo è stato votato alla massima astrazione, a far sì che la materia più solida si incontri con la materia sottile del suono. Mentre il visivo è solo frontale e dialettico, l’ascolto è sensibile a tutto quello che è intorno”.

Sarà: è un fatto, però, che l’arte (che chiamiamo non per niente “visiva”) viva da sempre proprio del rapporto con questa materia “dialettica”, che sono le opere degli artisti, per l’appunto. Opere in cui l’artista si sporca spesso le mani, costruisce, dipinge, modella, assembla, realizza: opere, appunto. Fisiche, visibili, leggibili, giudicabili. Sarà dunque un’opera, benché, a quanto pare, più sonora che visiva, anche quella di Bartolini, sparsa nei mille e passa metri quadri dell’Arsenale? Forse. E forse, chissà, magari riuscirà anche a conquistarci, coi suoi suoni e la sua (così ci assicurano) capacità di “generare comunità”.

Alcune considerazioni a priori, però, vale la pena di farle. È un dato oggettivo, infatti, che, mentre in tutto il mondo, da qualche anno a questa parte, si sta ri-scoprendo in arte non solo l’uso dei materiali del fare (anche quelli non convenzionali e tutt’altro che “nobili”, dalle stoffe ai ricami alle pelli alle plastiche etc. etc.), riscoprendo quindi la fisicità dell’opera d’arte (dopo decenni di idee e ideuzze, e anche qualche decennio di insopportabili e noiosissimi video d’artista lunghissimi e pretenziosi, che ci costringevano a pupparci ore di noia infinita davanti a uno schermo per far finta di aver visto qualcosa d’interessante); e, dall’altra, che si stia riscoprendo anche il senso profondo dell’arte stessa come specchio e metafora delle evoluzioni e dei cambiamenti della società (ed ecco allora il proliferare di opere, come avverrà in questa Biennale ma com’è già avvenuto in almeno due edizioni precedenti, incentrate sui diritti, sui conflitti, sulle identità, sulla fluidità tra i generi, sulle migrazioni, etc.); ebbene, in un contesto articolato, complesso e indubbiamente ad alto spessore politico come questo – a cui va aggiunto un progressivo ed esponenziale utilizzo delle tecnologie più innovative, a cominciare dalla AI, che si sta impossessando non solo della forma estetica dell’arte, ma del suo stesso processo creativo; ebbene, in un contesto come questo (e non v’è dubbio che oggi noi tutti si viva “in interesting times”, come recitava il titolo della Biennale del 2019, subito prima di quel fenomeno anomalo e indubbiamente assai “interessante” che fu la pandemia), ebbene l’arte italiana, questa sconosciuta, continua invece, come se niente fosse, a baloccarsi in dialoghi solipsistici con il proprio ombelico, dedicandosi alla ricerca di “visioni poetiche” attraverso grandi macchine sceniche che troppo spesso sembrano parlare del nulla. Pardòn: parlano di qualcosa, certo: di cose come “l’incontrarsi per ascoltarsi e per ascoltare l’altro”, “elaborare percorsi di conoscenza”, “generare comunità”, “aspirare a essere forse migliori”, e altre bagatelle del genere. Insomma, mentre l’arte nel mondo appare ricca di prese di posizione, di immagini forti, di pensieri radicali e spesso tutt’altro che pacifici e universalmente condivisi, in Italia si parla, come direbbe Bertold Brecht, d’alberi.

Per capirci: negli anni della nascita, in Italia, di un governo di destra-destra a chiarissima matrice autoritaria e securitaria; nell’anno in cui tutto il mondo vive col fiato sospeso tra guerre, massacri, escalation di conflitti ovunque, dai massacri di civili nella Striscia di Gaza ai bombardamenti in Ucraina; negli anni in cui l’intero globo è stretto e scosso tra crisi economica, squilibri sociali, globalizzazione, perdita di ammortizzatori sociali, attacchi ai diritti; negli anni in cui, però, nel mondo intero generazioni nuove di donne, di giovani, di attivisti mettono in crisi le nostre “comfort zone” sociali, di genere e culturali, e l’arte di tutto il mondo affronta di petto questi temi (e, che lo faccia o meno con onestà intellettuale o solo per moda, è però un fatto che in ogni modo se ne interroga e se ne fa carico); ebbene, in questi anni, dunque (interesting times, inutile negarlo), e in mezzo a questi conflitti, reali o meramente culturali che siano, l’arte italiana che fa? Si rinchiude in sé, prendendo a prestito i concetti, a noi tutti noti, di certa filosofia orientale, sull’immobilità meditativa contro l’azione, rinverdendo l’immagine del Bodhisattva, “che nell’iconografia buddista una volta raggiunta l’illuminazione vi rinuncia volontariamente per indicare la via agli altri esseri umani”, “incarnando in realtà forme di relazione profonde con il mondo”. Tante belle parole, per carità. Ma, detto tra di noi, hanno veramente a che fare con ciò che accade oggi nell’arte mondiale, o sono solo una buona, anzi ottima, scusa per non parlare in fondo di niente, facendo, come certi begli spiriti di un tempo, un po’ di poesia a buon mercato – ottima metafora per dire che, non sapendo come intervenire e cosa dire su un presente tanto complesso, articolato e divisivo (su cui tutta l’arte mondiale in realtà si cimenta), tanto vale fare darsi alla poesia, che è un po’ come dire all’ippica?

Massimo Bartolini, Head n.2 (The Studio), 1997/1998, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea.

Aspetteremo a vederlo, certo, come tutti: ma la sensazione, in questo anticipo di partita per ora solo raccontato e non mostrato, è che, mosca bianca in un panorama globale sorprendentemente ricco, articolato e complesso, pieno di spunti e di dibattiti accesi sul presente e sul futuro del mondo, questa immensa “struttura che non occupa spazio, ma lascia passare tutti e passa attraverso tutti”, rischi domani, quando sarà allestita, di apparire come il simbolo perfetto di un paese garrulo e ampolloso, che nel dibattito pubblico parla, parla, parla, per dire in fondo poco. O forse nulla. Ma speriamo di sbagliarci, e che sia solo una fastidiosa sensazione della vigilia.

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