Fulminacci, il nuovo singolo del cantautore tra arte e rappresentazione.

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Lui è uno dei cantautori emergenti più interessanti degli ultimi anni: Fulminacci, al secolo Filippo Uttinacci, romano classe 1997, ha una penna ironica e pungente che indaga, taglia, ed estrae con precisione chirurgica le contraddizioni viscerali della modernità.

Sebbene Filippo tratti coraggiosamente di tante tematiche, il suo vero core sembra essere una riflessione proprio sul suo stesso mestiere, sul processo di scrittura musicale e sulla costruzione dell’identità personale nell’era della sovraesposizione mediatica, a cominciare da uno dei suoi primi singoli, “Borghese in Borghese”.

Un altro esempio calzante è “Ragù”, in cui Fulminacci condanna apertamente la perdita di unicità nella ricerca musicale contemporanea, tanto che si rischia di diventare, appunto, un “Ragù di cantautore”, la cui “esistenza è chiusa dentro una prigione culturale”.

Alla mezzanotte tra il 14 e il 15 settembre è uscito il suo nuovo singolo “Filippo Leroy”, un brano denso, carico di citazioni dal mondo artistico/culturale e di riflessioni per cui vale la pena rallentare ed esplorarne il suo significato recondito.

Infatti, Filippo ci parla di auto-rappresentazione, ma stavolta lo fa dal punto di vista estetico e semantico, rifacendosi alle maschere di pirandelliana memoria. Per creare questa immagine di sé, il cantautore contemporaneo potrebbe vedere la sua “faccia scolpita nel marmo” o “dipingere un ritratto che muove lo sguardo” chiaro riferimento alla Monna Lisa di Leonardo. E’, in realtà, lo stesso Fulminacci a diventare non Leonardo, ma una sua rappresentazione: Philip Leroy, famoso per aver interpretato proprio il genio fiorentino nel film “La vita di Leonardo da Vinci”, è il cantautore stesso, attraverso un “readymade verbale” che altro non è che demistificazione, ovvero Filippo Leroy.

Filippo va poi oltre. Polemizza contro gli attivisti di “Ultima Generazione” in “vernice sopra l’arte per manifestare”, ma in realtà il nostro nemico è “ciò di cui siamo fatti”, ovvero la semiotica della nostra auto-rappresentazione dove la “sincerità è la più grande ipocrisia”.

Fulminacci, dunque, per risolvere questa crisi d’identità, vuole diventare un’icona, un’immagine dai connotati già sicuri e descritti nella storia dell’arte per mettere a tacere tutto quel coro di voci che non lo ascolta.

Ma come fare? Forse “tagliare una tela” come Lucio Fontana, o meglio “tagliarsi un’orecchio”, come Vincent Van Gogh? No no meglio “pensare con la propria testa”, dato che copia “da tutta la vita”.

“La Trahison des Images”, René Magritte, 1929

E allora al culmine della sua presa di posizione Fulminacci/Filippo Leroy si rivolge al maestro del surrealismo e all’artista che forse più di tutti ha riflettuto su realtà e rappresentazione, ovvero Renè Magritte, che viene schiodato dal suo piedistallo iconico per diventare un semplice “Renato”. Una delle sue opere più famose, infatti, “Ceci n’est pas une pipe”, ovvero “Il tradimento delle immagini”, diventa un pretesto per tornare alla realtà tangibile, “Renato, fidati, questa è una pipa”.

Un brano solido, all’apparenza orecchiabile e leggero, ma che nasconde una profonda riflessione sulle crisi dell’identità nell’era dell’immagine che si discosta sempre di più dalla verità, o per dirla con le sue parole, dalla “vita veramente”.

Io sono veramente così o sto solo imitando l’idea che ho di me, o il modo in cui qualcun altro mi desidera e mi disegna? E soprattutto, quale di queste opzioni è quella giusta?

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