Francesca Alinovi, cronaca di un omicidio al Dams pt.2

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Diversi podcast, negli ultimi tempi, hanno puntato la propria attenzione sul caso dell’omicidio, avvenuto esattamente 40 anni fa, di Francesca Alinovi, critica d’arte geniale ed eclettica, docente di Estetica al Dams di Bologna, studiosa della storia delle performance e sostenitrice ante-litteram del linguaggio dei graffiti, oltre che amica di artisti come Andy Warhol, Jean Michel Basquiat e Keith Haring (che dopo la sua morte le dedicherà anche una tela). Il nostro collaboratore Luca Steffenoni, scrittore e criminologo, ha ripercorso per noi la storia delle indagini seguite a questo orrendo omicidio, attraverso la chiave del racconto-verità, riletto attraverso gli occhi del commissario che per primo seguì le indagini. Un racconto diviso in 3 puntate, esclusivamente per i nostri lettori di Artuu

Se ti seri perso la prima parte, leggila qui: Francesca Alinovi, cronaca di un omicidio al Dams pt.1

Dietro a quella porta sigillata dai carabinieri, attorno a quella che oggi è solo una sagoma disegnata col gesso sul pavimento, non c’è solo l’appartamento in cui ha vissuto Francesca Alinovi. Non ci sono solo muri, soffitti dipinti da lei stessa con grandi spirali e con un drago che cala dalle pareti. C’è la morte, la vita, l’amore, c’è l’arte. Soprattutto l’arte.

Quella casa parla. Dice molto e tanto nasconde. A volte grida e lo fa sempre attraverso l’arte. C’è una scritta fatta con una matita da trucco sulla finestra che divide sala e bagno e si riflette sullo specchio: Your not alone, anyway. Comunque non sarai mai sola. Chi l’ha lasciata? È la firma dell’assassino? Una sorta di graffito urbano come quelli portati da Francesca Alinovi alla conoscenza del pubblico italiano?

Potrebbe significare tutto. E perché quel banale errore grammaticale? Non è detto che sia un errore, perfino i linguisti ci si mettono a confondere questo caso ingarbugliato. Una traduttrice consultata dal commissario dice, che sì, la forma è sbagliata, però, se l’avesse scritta un americano, magari un newyorchese ospitato dalla donna, allora potrebbe essere un messaggio in slang, dal significato molto diverso e inquietante: finalmente ti ho fregato.

Tra i tanti che sfilano in Questura in questi giorni, c’è un amico di Francesca, un pittore trentino, Umberto Postal, dice di averla fatta lui quella scritta, parecchio tempo prima. Ha un alibi, era a New York il giorno dell’omicidio. Pista falsa? Boh lo capiremo presto.

E poi c’è il quadro, quel quadro inquietante e premonitore, proprio vicino all’ingresso. Una mano che brandisce un coltello insanguinato e colpisce dall’alto verso il basso. Un quadro pop, un’immagine forte. Un caso? In mezzo a questo massacro senza senso, lei, Francesca Alinovi, rannicchiata a terra davanti alla porta d’ingresso, che risulta chiuso dall’interno. Uccisa. Assassinata.

Morta per edema polmonare dovuto all’accumulo di sangue causato dalla recisione mediante arma da punta e taglio della giugulare. Una morte atroce. Il commissario lo sa, la ferita mortale, quella che ferma il cuore, quella che blocca il sanguinamento, è arrivata tardi, troppo tardi per evitare una lunga agonia. Prima sono state inferte ben quarantasei pugnalate, crudeli, assurde, diverse da quei delitti d’impeto, magari in preda alla droga, effettuati dagli assassini in casi simili.

Un comportamento sadico, la lucida follia di chi forse non aveva il coraggio di uccidere. La casistica parla di colpi d’assaggio, di ferite da difesa, mai di quarantasei piccole ferite poco profonde, tutte date sulla stessa parte del corpo, gamba, braccio, schiena, collo. Tutte solo sul lato destro. Quasi un macabro rituale, di quelli che si vedono negli omicidi-suicidi degli adepti a strane sette. 

Che caso di merda. Questo pensa il commissario. Proprio un bel caso di merda.

Secondo i due medici legali, quello della Procura e quello nominato dalla famiglia, la morte è avvenuta tra le 17 e le 24 di domenica 12 giugno. Un lasso di tempo infinito per chi deve inchiodare il colpevole. Tutto il tempo per crearsi un alibi. Dicono che con il caldo e il processo avanzato di decomposizione non si può fare di meglio, non si può essere più precisi. Poi la moquette sul pavimento che ha assorbito il sangue e prodotto altro calore, e quel giubbotto indossato nonostante la temperatura. Per i medici legali o vieni assassinato in una cella frigorifera o non si può sapere nulla di certo.

Meno male che c’è l’orologio, adesso è alla Scientifica, speriamo che qualche cosa ne venga fuori. Non sarebbe la prima volta che dal movimento di un orologio automatico si ricostruisce l’ora esatta della morte. Già, se viene tolto al cadavere senza provocare movimenti involontari, senza riattivarlo, ma il commissario sa perfettamente che questo succede solo nei manuali.

Sembra che nemmeno si sia difesa quella povera ragazza. Nessuno nel vicolo che abbia sentito un grido, un rumore, un litigio nonostante le finestre spalancate. Possibile? 

L’assassino è qualcuno che la conosceva bene, che ha agito con calma, chiudendo la porta dietro di sé, col semplice scatto della serratura. Che a suo modo l’ha rispettata. Nessun segno di violenza carnale o di tentativo. Lasciata sul pavimento, perfettamente vestita, coricata sul fianco, le scarpe rosse ai piedi, la maglietta a righe e quel giubbotto fuori stagione. 

Qualcuno che fuggiva dal suo sguardo. Che forse è rimasto li, attonito, almeno fino a quando Francesca ha esalato l’ultimo respiro. Ci sono infatti due grandi cuscini a coprirle il volto.   

Qualcuno che ha trovato l’arma del delitto sul posto, quel coltello da carne che manca nel set da sei appeso in cucina. Manca anche un asciugamano all’appello. L’avrà usato l’assassino per pulirsi e uscire indisturbato portandoselo via.

“Bologna capace d’amore, capace di morte…”.

Il commissario non smette di pensare a una canzone di Guccini ascoltata da poco. Adora il cantautore emiliano, è andato anche a un suo concerto in piazza, gli ha svelato più cose lui di quella strana città di quante ne abbia apprese negli schedari della Questura.

“Faccio il mio testamento di amore e di morte perché ho sempre sentito l’amore come morte (e la morte come amore?). Non voglio morire… non posso amare…”. 

L’ha scritto il 20 dicembre 1982 Francesca sul suo diario. 

Forse ha ragione Daniela Magagnoli, il giudice istruttore che sta già preparando il processo. Forse le donne queste cose le capiscono meglio di noi. Forse l’unica pista è l’amore. Insensato, malsano, ambiguo, torbido, malato, allucinato, ma pur sempre amore.

Quello di Francesca Alinovi per un suo studente di 23 anni, un pittore dalla personalità a dir poco complessa.

Eroinomane, cocainomane, qualsiasi cosa gli capiti sotto mano per alterare la percezione della vita e della morte. Omosessuale? Impotente? Certo uno che non sapeva o non poteva contraccambiare l’amore che la donna provava per lui. 

(….to be continued)

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