Antonio Ligabue, come addomesticare il colore (e la tigre)

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In occasione delle mostre “Spiriti selvaggi. Antonio Ligabue e l’eterna caccia”, curata da Vittorio Sgarbi e Marzio Dall’Acqua e aperta fino al 5 maggio a Palazzo dei Priori di Fermo, e Antonio Ligabue aperta fino al 18 febbraio al Museo Revoltella di Trieste, pubblichiamo questo intervento critico di Gianluca Marziani.

Addomesticare il colore: d’altronde già nel cognome vive placido un animale, quel mastodontico bue che amplifica il rumore ovattato delle pianure emiliane. Antonio Ligabue seguiva un destino edenico fin dalla prima coscienza di un bestiario che si allargava allo spazio illusorio, al rito pittorico di una giungla asiatica da cui sbucavano felini che non vedresti nel Novecento di Bertolucci (dove ci sono i paesaggi reali di Ligabue) ma in un rito felliniano, quando il circo giungeva alle porte di Rimini e si portava appresso la cifra esotica di mondi lontani che accendevano il sogno infantile del regista (i felini dentro Fellini non sono casuali ma segno di certi destini solitari).

La coscienza del mondo esotico tocca da sempre le aristocrazie europee, i lussi esigenti, le follie ludiche di serate lisergiche nei palazzi del potere. Esotismi di chimere lontane che già l’Impero Romano considerava desiderio realizzabile, carezzando tigri e leoni, cavalcando elefanti e giraffe, giocando con il bestiario fantastico di terre speziate e misteriose.

I felini tornano di continuo nelle epoche dei lumi, li ammiriamo nei modelli estetici di Liberty e Art Nouveau ma anche nella Hollywood del divismo senza sonoro, li possiamo amare nelle sculture eleganti di Rembrandt Bugatti, in un magnifico quadro di Renato Guttuso a La Galleria Nazionale…

Oggi il mondo animale è un tema crescente – forse catartico per l’arte stessa – che avvicina artisti e linguaggi visivi sotto l’impronta di tre correnti principali: il bestiario medievale, la fauna esotica e la fattoria domestica.

Antonio Ligabue è stato il primo artista del Novecento a cavalcare la fusione coraggiosa tra medioevo ed esotismo, dando aura fantasiosa e potenza metafisica alle sue tigri dalle fauci munchiane, senza tralasciare l’eco padana che corre lungo le fattorie del Po. La sua vena schizoide lo rendeva un espressionista tra Marte e Urano, sulla scia di Van Gogh e Kokoschka, dentro una libertà creativa che scorreva fuori da qualsiasi regola ma nel sentore del paesaggio elettivo.

Le tigri, i pappagalli, i cervi, le aquile, i serpenti, le zebre, i ragni… animali diversi che hanno il puro selvaggio nel loro codice genetico, creature che non addomestichi ma che puoi piegare al gesto immenso della pittura che ammaestra il colore. Ligabue era un magnifico veggente che anticipava nuovi inizi dopo l’Antropocene, che toglieva l’essere umano dal centro del quadro, che dialogava con una follia piena di note intonate e frasi utili. Per lui e il Doganiere Rousseau eliminerei il termine naïf e userei edenico: perché hanno aperto strade ulteriori per le stesse avanguardie, sono gli avatar onirici che hanno captato il virtuale prima del digitale, sono i cacciatori del paesaggio interiore e i domatori del mondo nuovo.

Antonio Ligabue è un gigante dell’arte italiana. Un maestro fuori dal mondo (delle apparenze) ma dentro il paesaggio delle sostanze universali. 

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