Se un autore ripropone la stessa opera in due salse diverse, si tratta di plagio?

Quest’anno il Festival di Sanremo è partito col botto. Nonostante la super-performance di Fiorello e l’irruzione sul palco di un “disturbatore”, ieri la notizia in prima pagina era il presunto caso di plagio imputato a Ermal Meta e Fabrizio Moro ai danni di Ambra Calvani e Gabriele DePascali, accusa decaduta lo stesso giorno dopo poche ore. Il salvagente è arrivato dalla giuria del Festival, che ha deciso di far decadere le accuse poiché l’autore delle due canzoni al centro dello scandalo è di fatto lo stesso, Andrea Febo. La questione quindi, sembra ruotare intorno al diritto d’autore piuttosto che al contenuto, riproposto due volte in salse diverse.

La cosa mi ha fatto pensare che questa polemica non sarebbe scoppiata, o almeno non si sarebbe così articolata, se al posto delle due canzoni ci fossero state due opere d’arte. Nessuno ha mai accusato Giorgio Morandi di plagiare se stesso ogni volta che dipingeva una natura morta, famose per essere tanto simili una all’altra. Tanto meno hanno accusato Cézanne di auto copiarsi quando dipingeva Mont Saint Victoire o Fontana quando faceva i tagli. In questo caso giustamente si parla di ricerca artistica, di voler continuare a ricontestualizzare un soggetto e arricchirlo con nuovi spunti e sensazioni. Fare un piatto con gli avanzi è una cosa, riscaldare la minestra un’altra. La vera domanda da porsi dunque non è se la canzone imputata sia coerente o meno con la legge del diritto di autore, quanto più se il contenuto sia stato arricchito di un nuovo significato in grado di arricchire a sua volta il pubblico.

Pablo Picasso aveva detto “i cattivi artisti copiano, i geni rubano”. Per me rubare vuol dire in primis  “rubare a sé stesso”, utilizzare quello che già si ha per crescere e far crescere.Forse ci siamo allontanati un po’ troppo dal punto di partenza, fatto sta che vorrei dare ancora una speranza al povero Andrea Febo e chiedergli “Andrea, ma allora hai copiato o rubato?”

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