Sergio Padovani, un Pandemonio per raccontare il nostro inferno quotidiano

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Se volessimo, ancora oggi, raffigurarci i luoghi-simbolo più iconici dell’Inferno con i suoi dannati e i suoi demoni, potremmo senz’altro ricorrere alla più tradizionale iconografia medioevale rintracciabile tra affreschi, statue, grottesche, mosaici, arazzi, capitelli e orpelli vari presenti in basiliche, chiese e palazzi storici disseminati ovunque in ogni angolo dello stivale, o anche in tutt’Europa (quelli che uno studioso eccezionale come Jurgis Baltrušaitis mirabilmente descrisse nel suo Medioevo fantastico).

Sergio Padovani, Il bacio, olio, bitume, tempera, resina su tela 190×160, 2023. Courtesy Fondazione The Bank.

Se si volesse invece provare a rintracciarli nella più vasta produzione degli artisti contemporanei, appare evidente che davvero in pochi, oggi, abbiano il coraggio – travolti dalla superficialità di quel “realismo capitalista” che, per dirla con Mark Fisher, ha ormai permeato ogni anfratto del nostro immaginario corrente – di provare a cimentarsi in un’operazione di recupero della simbologia infernale presente nella nostra memoria più profonda e radicata, non limitandosi a ripercorrere, semplicemente, i luoghi in cui l’inferno sembra purtroppo comparire ogni giorno nelle cronache della nostra “normale” quotidianità: da Gaza al Donbass, alle favelas sudamericane alle bidonville africane fino alle stesse spiagge del Mediterraneo dove ogni giorno perdono la vita migliaia di disperati in fuga da qualche orrore provocato dalla legge della sopraffazione e del denaro.

Sergio Padovani, Dodecafonia, olio, bitume e resina su tela, cm 195×175, 2023. Courtesy Fondazione The Bank.

Sergio Padovani è senz’altro uno di questi artisti, che non ha ceduto alla sirena della rappresentazione “realista” dell’oggi, ma ha continuato a scavare a livello metaforico nelle nostre paure ancestrali e nel nostro immaginario profondo. La sua ultima mostra – aperta a Roma, fino al 9 marzo, ai Musei di San Salvatore in Lauro, a cura di Cesare Biasini Selvaggi con Francesca Baboni e Stefano Taddei, prodotta e organizzata dalla Fondazione The Bank – ETS, Istituto per gli Studi sulla Pittura Contemporanea e da Il Cigno GG Edizioni, per poi essere in seguito spostata a Modena, all’interno del Complesso di San Paolo, ex Chiesa e Sala delle Monache –, significativamente intitolata “Pandemonio”, ripercorre infatti alcuni dei temi e soggetti cari all’artista, come il viaggio apparentemente senza meta – viaggio reale o metaforico, all’interno del proprio stesso tormento interiore – di orde di anime dannate, uomini disperati, spesso senza volontà, senza speranza e senza reale espressione sul volto che non sia quella dell’annientamento, dell’abbruttimento e del dolore, poveri esseri dolenti, colti nel cuore più profondo e ancestrale del proprio travaglio quotidiano, ma anche viandanti, santi, asceti, martiri, schiavi, mendici, malati, pellegrini; e poi uomini-bestie, esseri psichicamente prima ancora che fisicamente deformi, creature semi-larvali, spettri, sembianti, revenants. Uomini, soprattutto – come siamo tutti noi, quotidianamente – destinati eternamente a fare i conti col proprio dolore, con le proprie colpe, le proprie inadeguatezze, le proprie angosce e i propri sensi di colpa. Non è, però, paradossalmente – preme sottolinearlo – un triste spettacolo, quello servitoci da Sergio Padovani, perché tenuto insieme da una pittura magistrale, intensa, conturbante, raffinatissima, drammatica e sulfurea, certo, ma segnata anche, qua e là, da zone di autentici sprazzi di luce, albe incantate, epifanie del colore che si stagliano dietro alle espressioni drammatiche dei suoi misteriosi personaggi.

Sergio Padovani, Europa, olio, bitume e resina su tela, cm 195×175, 2023. Courtesy Fondazione The Bank.

“Il sostantivo Pandemonio”, ha spiegato Sergio Padovani, “si è radicato in me non dal Milton del Paradiso perduto (che creò per l’appunto il neologismo per rappresentare “la superba Reggia del gran Satáno e de’ suoi Pari”, ndr), ma dalla lettura di un altro scrittore, assolutamente distante dal primo, sia per luoghi che per scelte. Dipingevo da pochissimo, ebbi la fortuna di incontrare nel mio cammino Ivano Ferrari, poeta mantovano che con La franca sostanza del degrado mi aveva profondamente impressionato. La parola pandemonio è saltata fuori come minimo comun denominatore di un universo di immagini narrate, a volte anche crude e difficili da sopportare, che però testimoniavano il momento reale, non solo sociale e politico, ma anche estremamente mio… la mia confusione, il tormento di quei giorni sfocati, la pittura che dirompeva nella mia vita”.

Sergio Padovani, Il vuoto dell’universo urla ora, olio, bitume e resina su tela, cm 190×160. 2023. Courtesy Fondazione The Bank.

È difatti la pittura, alla fine, oltre al tormento che ognuno di noi è destinato a recare con sé nel suo viaggio esistenziale, l’oggetto segreto, il punto ultimo a cui lo stesso artista rivolge il suo sguardo, il supremo arbitro della narrazione per immagini: la pittura, con la sua capacità di rimestare in noi desideri inconsci, ataviche paure, nevrosi arcaiche da cui non riusciamo e non possiamo liberarci. Padovani, con la sua pittura densa e bitumosa, misteriosa, a tratti ascetica e a tratti cupa e letteralmente infernale, riesce infatti a risvegliare nello spettatore un senso profondo del mistero, riesce a far riemergere forme ancestrali di coscienza perduta, dimenticata nel tempo, a riattivare codici, sinapsi, relazioni segrete tra le cose, a far riemergere collegamenti atavici della nostra coscienza primordiale, dei quali la nostra memoria razionale ha perduto nel corso del tempo il senso, e forse la stessa capacità funzionale.

Sergio Padovani, Le repentite, olio, bitume, resina su rame, cm 71×121, 2023. Courtesy Fondazione The Bank.

Nei quadri di Sergio Padovani sembrano fare la loro comparsa elementi diversi e apparentemente slegati gli uni dagli altri: simbolismi oscuri, alchemici, occulti, sprazzi di antiche e sparse epopee, immagini e simboli legati a riti, leggende, tradizioni antiche e dimenticate nel corso del tempo. Ricordi vaghi, ancestrali, di qualcosa che la nostra coscienza razionale sembra aver perduto da tempo immemorabile: una sorta di riattivazione di quel motore magico del mondo che abitava l’era più arcaica della terra, quando la scienza e la ragione non avevano ancora spiegato le loro ali, egemonizzando il corso della Storia, e il senso magico insito nella natura, nell’uomo, nelle piante governava ancora la crosta terrestre. In Padovani, è come se la pittura aprisse uno squarcio su quel mondo oggi dimenticato, evocando immagini, segni, situazioni che oggi potrebbero apparire soltanto, a uno sguardo superficiale, come misteriosi vaneggiamenti visivi senza apparente capo né coda: danze macabre con scheletri, viaggi temporali, voli di sacre madri gravide di esseri informi o non ancora nati, grovigli di corpi, guerre magico-alchemiche, trasformazioni, metamorfosi, attraversamenti di stato e di coscienza, venti di fuoco, pratiche iniziatiche, crocefissioni, flagellazioni, autocombustioni, enigmatiche guerre di conquista a cavallo di mostri antropomorfi, e ancora visioni mistiche, sogni, miraggi, allucinazioni, sdoppiamenti, incroci alchemici, martirii, odissee: un rimescolamento folle e perfettamente coerente di tradizioni, misteri, pratiche antichissime e liturgie segrete e rimosse.

Sergio Padovani, La donna nuda, olio, bitume, resina su rame, cm 59×70, 2023. Courtesy Fondazione The Bank.

Sono epifanie, illuminazioni, allucinazioni visive, miracoli: non mere rappresentazioni di miracoli, ma la loro stessa evocazione in forma di pittura, di pigmento, di forma pura che sembra uscire dalle viscere e dal cuore profondo del mondo. “I miracoli sono come le pietre: si offrono ovunque e offrono la loro bellezza, ma nessuno ne riconosce il valore”, ha scritto Alejandro Jodorowsky nella sua magnifica e immaginifica Danza della realtà. “Viviamo in una realtà dove abbondano i prodigi, ma li vedono soltanto coloro che hanno sviluppato le proprie percezioni”.

Sergio Padovani, Il frantumatore di mondi, olio, bitume e resina su tela, cm 21,5×27,5. Courtesy Fondazione The Bank.

Le folle visioni di Padovani affondano le mani, le viscere, l’animo nel cuore più fitto del mistero. “Il mistero deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita”, annota Károly Kerenyi nei suoi Studi sul labirinto. “Il mistero autentico resiste alla spiegazione, perché non può, per sua natura, venir spiegato, sciolto razionalmente. Il mistero esige una spiegazione: ma questa avrà solo il compito di indicare, appunto, dove risiede il vero enigma”. E Bataille: “il mondo è dato all’uomo come un enigma da risolvere”.

Sergio Padovani, con i suoi straordinari cicli pittorici, ci indica la via per provare a penetrare nei gangli del mistero del mondo e della coscienza individuale. Sta a noi, poi, poveri uomini resi ciechi dalla griglia della modernità, riuscire a dipanarne i fili, a far diradare la nebbia della coscienza frantumata, a intravedere la luce in fondo al buio fitto del nostro inferno quotidiano.

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