Psycho pass – c’è davvero scelta?

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Può capitare, nella traiettoria di una vita, che una scelta sbagliata basti a segnare un destino, a condannarsi. Per questo bisognerebbe sempre sospendere il giudizio: la morale ha confini fluidi, che le scelte di ciascuno attraversano a seconda delle circostanze, delle occasioni, dei tempi, delle comunità di appartenenza. E insomma, com’è ovvio, non esiste una naturale disposizione a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, e non è affatto detto che a un certo stato psicofisico corrisponda in maniera automatica un modo di fare, di comportarsi. Bisogna vedere. Per questo è interessante chiedersi cosa accadrebbe se il momento della scelta, ossia il tempo in cui è ancora possibile fermarsi, cambiare idea, fosse sospeso. Chi appartiene al vasto gregge degli Otaku Mediocri (lo siamo un po’ tutti, noi che di tanto in tanto leggiamo manga e facciamo maratone di anime senza aver davvero sviluppato un interesse monomaniacale o nutrire la vocazione anacoretica dell’hikikomori)  può trovare una risposta frequentando il distopicissimo mondo di Psycho-pass (2012) – visione obbligatoria, dico davvero (se invece appartenete alla categoria dei manga-addicted, e avete il fetisch della pagina disegnata bene, esiste un delizioso adattamento fatto da Miyoshi e meritoriamente pubblicato da Panini). 

Gli ingredienti sono grossomodo quelli che uno si aspetta dal genere sci-fi: c’è una società chiusa, apparentemente pacifica ma in realtà brutale; c’è uno strumento (lo psycho-pass, appunto) che può misurare e monitorare capillarmente lo stato mentale degli esseri umani, il loro coefficiente di criminalità; c’è un potere totalitario che usa il suddetto strumento per accumulare consenso arrestando preventivamente chiunque venga identificato come un potenziale criminale; ci sono un mucchio di combattimenti coreografati benissimo, con il conseguente corollario di tessuti lacerati, ossa fracassate, organi spappolati e insomma la solita morbosa attenzione nipponica per i corpi su cui viene esercitata la violenza; e c’è, soprattutto, un senso di ineluttabilità che affiora quasi a ogni episodio (o capitolo). Tutto messo insieme da mani che erano evidentemente in stato di grazia.

La storia ruota intorno ad Akane Tsunemori (ex secchiona e novello istruttore di polizia) e Shinya Kōgami (ex ispettore con un coefficiente di criminalità ormai troppo alto, e perciò degradato a esecutore – che sarebbe un tizio con la facoltà di sparare a vista ai potenziali criminali, ma solo sotto la rigorosa supervisione di un ispettore). Lui ha fatto qualcosa – all’inizio non si sa bene cosa – che l’ha messo in una posizione spiacevole (il che, in casi del genere, significa che ha fatto una scelta anche parecchio giusta, perciò si empatizza); lei ha soprattutto le idee confuse e non sembra davvero convinta di volersi trovare dov’è. All’inizio c’è una certa tensione – oddio, tensione forse è un eufemismo dato che lei gli spara alla schiena; ma va capita: è una vita difficile, sono cose che succedono. E però è solo una questione di tempo: i due, come capita, scoprono di nutrire gli stessi dubbi, di farsi le stesse domande, e insomma di avere prospettive simili. Un’affinità che diventa sempre più evidente man mano che le indagini si concentrano su un tizio pluriomicida che, non si capisce bene come, ha uno psycho pass limpidissimo, ossia Shōgo Makishima – che, più che un villain, è l’incarnazione delle traiettorie che può disegnare un’idea (se dovessi fissare quest’immagine in un paragone, direi che Makishima assomiglia a personaggi come V o Don Giovanni; e quindi applausi a Urobuchi: Moore e Da Ponte sono una gran bella compagnia). 

In realtà il come si capisce benissimo: nella società immaginata da Urobuchi il criterio per stabilire il limite oltre il quale un individuo può essere identificato come un potenziale criminale sembra essere la distanza rispetto a un profilo psicologico ritenuto accettabile per la convivenza sociale (insomma si misura il modo in cui lo stress altera i movimenti della psiche), e cioè un criterio che funziona appunto finché si riesce a dimostrare che l’origine del male sia quel momento preciso in cui qualcosa si guasta in maniera irrimediabile. Per farla breve, il presupposto su cui si basa tutta la storia è che il Male, anche quando siamo noi a compierlo, è per lo più una cosa che subiamo (in realtà no, è un po’ più complicato di così, ma procediamo per assiomi, come quei deliranti manuali di filosofia morale): un presupposto che però cade di fronte al tentativo più o meno disperato di incarnarlo, il Male, e cioè di fronte a chi, come Makishima, ha una bussola morale che gira secondo criteri non convenzionali. 

Ecco, è anche questa bella dicotomia a rendere interessante – e molto aderente alla realtà – Psycho pass: da un lato c’è la grandissima parte dei personaggi (ossia del genere umano), che se la cava come meglio può agendo in circostanze che non lasciano mai veramente una scelta (le regole del gioco le fanno gli altri, quelli che governano il Sibyl system; e non c’è altra possibilità che accettarle); dall’altro lato ci sono quelli come Makishima, che possono scegliere solo perché sono disposti a sacrificare tutto alla vita (compresa la vita stessa). A dire il vero, con gli stessi ingredienti poteva anche venire fuori un brutto anime, come si dice, ‘politico’, con tutte le insensatezze, la retorica e il tono paranoico-complottista che questa qualifica di solito si porta dietro. E invece no. Un po’ perché in Psycho-pass a trascinare i personaggi è una forza troppo grande, persino invincibile; e anche la scelta di ricorrere alla violenza (la scelta che fanno Makishima e Kōgami, per esempio) riflette una costrizione più che una precisa volontà. E un po’ perché questa forza è impossibile da identificare con precisione, perché è il risultato di un melange di tradizioni, ideali e consuetudini radicatissime. Il che rende inutile, più che impossibile, chiedersi di chi è la colpa. 

Poi può darsi che per scrivere una bella storia serva un po’ di affetto e di interesse anche per i personaggi che orbitano intorno ai protagonisti. E se è così – ed è ovviamente così – Psycho pass è una storia bellissima, piena di figure a cui riesce facile affezionarsi e che hanno un’identità, un carattere, un modo preciso di stare al mondo (come Kagari, un cazzone per il quale si nutre una simpatia, diciamo così, epidermica). Una cosa invece di cui lo spettatore avrebbe volentieri fatto a meno è la raffica di citazioni sparate più o meno a casaccio che costellano tanto gli episodi dell’anime quanto i capitoli del manga. Ma pazienza: vale comunque la pena cacciare questi cinque euro e abbonarsi a Crunchyroll (no, non sto facendo pubblicità, è che sulle piattaforme più diffuse non si trova: su Netflix da un po’ di tempo non c’è più, su Prime c’è solo la terza stagione, che è dimenticabilissima, mentre su Disney tutto tace; e francamente non me la sento di incoraggiare la pirateria – o almeno non pubblicamente).  

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