Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo

A pochi metri dalla Cattedrale di Treviso, c’è un cortile un po’ nascosto, circondato da mura grigie alte abbastanza da non far vedere, da fuori, cosa si nasconda al suo interno. È lì che prende vita la mostra Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo.

L’esposizione, presentata dalla Fondazione Imago Mundi e visitabile fino a domenica 30 giugno 2024, si trova nella sede espositiva delle Gallerie delle Prigioni. Curata da Claudio Scorretti, Irina Ungureanu e Aman Mojadidi, espone le opere e i lavori di ricerca di 162 artisti che vivono o hanno vissuto in campi e insediamenti per rifugiati nel mondo. Attraverso un viaggio che conduce lo spettatore nei cinque continenti, ogni pezzo in mostra racconta la storia, personale, ma collettiva, di chi vive la condizione di rifugiato, mostrandone unicità e particolarità.

Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo presenta undici dei più grandi campi rifugiati al mondo. Ogni ambiente è dedicato a un campo. Si parte da quello di Kutupalong in Bangladesh che ospita i Rohingya, una delle maggiori minoranze senza patria, ritenuto oggi il più popoloso al mondo. Si prosegue attraverso il Kenya e i due principali insediamenti rifugiati in Uganda; si arriva in Giordania, per poi esplorare, nello stesso Paese, cinque dei campi per palestinesi: Baq’a, Hittin, Irbid, Madaba e Souf.

Le pareti delle Gallerie delle Prigioni – ex carceri asburgiche ottocentesche – cui scenario non potrebbe essere più rispondente alla sensazione che si prova visitando la mostra, sono bianche, spoglie, pronte ad accogliere piccoli quadri, rettangoli che non superano la dimensione di una fotografia (10x12cm), approfondimenti di testo e video, realizzati da chi la storia non solo la racconta, ma la vive sulla sua pelle. E sotto di essa.

Le aree di provenienza degli artisti sono varie: dall’Afghanistan al Myanmar, dal Kurdistan al Vietnam, dall’Etiopia alla Somalia, luoghi di crisi, conflitti, persecuzioni, catastrofi naturali e violenza. Anche i Paesi, in cui gli artisti hanno trovato rifugio, sono sparsi nel mondo: Uganda (nei campi di Nakivale e Bidibidi), Kenya (Dadaab e Kakuma), Medio Oriente, a Za’atari, nel più esteso campo per siriani, fino al Nord America, alla Germania, alla nostra, e loro, Italia.

È stata l’arte a permettere agli artisti che abitano questi luoghi, o che li hanno abitati, di superarne i confini, attraverso la propria rappresentazione della crisi, mondiale e umana, della solitudine e della lontananza.

All’interno del percorso espositivo, accanto alle opere formato 10x12cm, si potranno ammirare Reframe “Home” with Patterns of Displacement, il lavoro dell’artista curdo, Rushdi Anwar, composto da frammenti di tappeti, che generano figure, spazi vuoti e irregolarità, rappresentazione della precarietà della vita dei rifugiati; la tela di Laila Ajjawi, street artist palestinese, nota per dipingere murales nei campi per rifugiati e Il Labirinto, una serie di ritratti e interviste – realizzate in collaborazione con il giornalista Luca Attanasio – firmati dal fotografo Mohamed Keita, originario della Costa d’Avorio, a Roma dal 2007.

Esuli, migranti, rifugiati e apolidi, sradicati dalle proprie terre, sono costretti a fare i conti con un nuovo paesaggio”, scriveva Edward Said in Nel segno dell’esilio, “e la creatività, come del resto la profonda infelicità che si attribuisce al modo di fare di tali soggetti fuori posto, costituisce di per sé una delle esperienze che devono ancora trovare una loro narrazione”. Partendo da questo scritto, l’intenzione della Fondazione Imago Mundi è quella di offrire agli artisti uno spazio di libertà, in cui esprimere la propria arte e potersi raccontare, nella condizione di rifugiati, spesso esuli e, mediante la riflessione, di avvicinare alla comprensione del concetto di campo, non solo come realtà abitativa temporanea, ma come condizione che evolve, “conglomerati urbani destinati a durare nel tempo”.

Out of Place è l’immagine di più di una realtà. Quella dei rifugiati, fuori dalla propria casa, dalla propria terra, costretti a vivere in una condizione che agli occhi esterni appare precaria, ma che, per loro, potrebbe essere definitiva. Quella degli spettatori, fuori da sé, estranei a luoghi che non conoscono e che sentono lontani. Quella dell’arte stessa, fuori dallo spazio, dagli schemi, dal tempo, capace di rendere immortale un’immagine, un momento, celando più di un mistero. Il perché del dolore, della guerra, della sofferenza, dell’isolamento, dell’incertezza umana.

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