Mimmo Paladino a dialogo con il Palazzo del Papa

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“Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione”. Le parole di Francesco De Gregori trovano perfetto riscontro, una volta sopraggiunti a Palazzo Boncompagni a Bologna.

Qui la storia, la cultura, l’arte e anche la fede, ma direi forse maggiormente la mistica e la sacralità del simbolo e del tempo sono da sempre di casa.

Tra queste pareti, in questi luoghi visse infatti il cardinale Ugo Boncompagni prima di essere eletto al soglio pontificio nel 1572, con il nome di papa Gregorio XIII. L’edificio venne fatto edificare dal padre del futuro papa, quando Bologna era seconda solo a Roma per importanza ecclesiastica; siamo nel 1548 e l’architetto che lo progetta è Baldassarre Tommaso Peruzzi, anche se gli interventi più radicali ed innovativi, come la famosa scala elicoidale, li si devono a Jacopo Barozzi detto Il Vignola

Un luogo che tracima di storia, dove l’arte è continuità e trova anche oggi la sua dimora; non è una caso probabilmente che il Vignola sia stato uno dei maggiori interpreti del Manierismo e proprio in questi giorni, questo Palazzo vede la mostra di uno dei protagonisti della Transavanguardia, che proprio nel Manierismo aveva trovato un’importante ambito di confronto e riflessione. 

Stiamo parlando di Mimmo Paladino, che attualmente espone nel Palazzo del papa, opere dove l’arte e la sensibilità si esprimono in libertà, dentro l’immaginario oscuro dell’umanità e della nostra storia, all’interno del mondo dei santi, dei sogni, dei simboli, dei miracoli, obliando il dominio dispotico del razionale.

Paladino è un artista a trecentosessanta gradi, che utilizza da sempre più linguaggi: dalla pittura, alla scultura, all’installazione, alla fotografia, al cinema, ma anche in competente dialogo con la musica.

Un artista Silenzioso, come il titolo di un suo storico quadro, estremamente comunicativo e creativo, che inizialmente preferiva “ritirarsi silenziosamente a dipingere un quadro”, ma che successivamente ha visto Paladino tracimare nel tentativo di cercare e quindi trovare un’arte totale, senza limiti che non ne costringa l’espressione perpetua.

Mito, storia, tempo passato e attuale, spiritualità, storie della nostra tradizione culturale e popolare, leggende, archetipi: insomma ciò che fa parte di noi, della nostra storia e del nostro “essere”, è raccontato dentro le sculture, sulla superficie dei quadri tra le installazioni. 

La conferma arriva proprio dalla voce di Mimmo Paladino: “La mia cultura visiva nasce da un’idea di stratificazione, con immagini figurative e non figurative, talvolta anche decorative e minime. È il paesaggio fisico e mentale del sud d’Italia, dell’entroterra beneventano, del Sannio, pieno di frammenti più che di immagini definite. Una storia frantumata e ricostruita, una storia di passaggi e di tracce dove un frammento di testa romana si incastra con un blocco di epoca precedente. Poi vengono i longobardi che aggiungono altro ancora e allora tutto diventa un collage di elementi astratti e figurativi, oppure irriconoscibilmente figurativi. Il mio punto di riferimento non cosciente lo ritrovo proprio nella cultura del meridione, in quelle architetture ed in quelle opere fatte di segni necessari e, tuttavia, anonimi. In quella regione quando si innalzava un muro lo si faceva con ruderi di altre epoche e con frammenti dissotterrati. È da qui che nasce il segno dell’uomo trasposto in un’opera funzionale alla spiritualità”.

Il passo incede in una stanza, dove rimaniamo ad osservare le decorazioni della cinquecentesca Sala delle Udienze papali, ma soprattutto dove entriamo in dialogo visivo con i tredici grandi cavalli neri, che dislocati nell’intero spazio sembrano emergere dal terreno, provando a liberarsi dalla sua forza inghiottente e spietata.

Il cavallo è da sempre uno dei simboli prediletti da Paladino, soggetto per eccellenza di libertà, ma anche di fedeltà e in questo caso interpretato come emblema della storia, che ci riporta alla mente il cavallo di Troia e o il cavallo del Don Chisciotte, ma anche iconograficamente la struttura arcaica delle stilizzazioni scultoree etrusche. Ma il cavallo è altresì il ponte tra il mondo medievale dei cavalieri e quello moderno, immagine della quale Paladino si serve per condurci nel Postmoderno, dove le forme sintetiche ed archetipiche di questi soggetti ed il colore nero dominante, sono si, simbolo della condizione umana ma anche sinonimo di energia e volontà indomita di emergere dalle “sabbie mobili che tirano giù”.

La mente non può non andare alla famosa installazione La montagna di sale, realizzata per la prima volta a Gibellina nel 1990 e poi ripetuta in Piazza del Plebiscito a Napoli e successivamente in Piazza Duomo a Milano; un’opera straordinaria, a forma appunto di piramide di sale dentro e sopra la quale si ergono numerosi cavalli. Echi lontani, dal sapore arcaico, che rimandano all’antica Grecia o alla nostra identità protovillanoviana, o addirittura della lontana Mesopotamia. Un monumento “Popular ma anche metafisico, inteso come luogo del silenzio, che rende il terreno isolante da tutto l’inutile frastuono del circostante, oppure un monito, riprendendo ciò che accadde a Cartagine, dove il terreno venne appunto cosparso di sale, affermandone così la sconfitta. La disfatta simboleggiata dai cavalli, bruciati, disarcionati e spesso abbandonati a loro stessi, così come avviene purtroppo di frequente con il nostro patrimonio archeologico, trascurato e dimenticato.

L’omaggio all’iconografia della Madonna con la carnagione nera, Paladino la concretizza dedicando un’intera piccola sala a sei dipinti, appunto della serie le “Madonne nere“. Immagini votive, la cui tradizione ed interpretazione trova la sua interpretazione storica e iconografica o nel fumo delle candele, o nell’alterazione dei pigmenti a base di piombo dei pigmenti, o ancora nella volontà di non rappresentare autorità sacre con caratteristiche simili all’umano nell’incarnato, oppure più semplicemente perché provenienti da popolazioni non europee, o in origine derivante iconograficamente dalla dea Iside. Immagini enigmatiche, anch’esse archetipiche, espressione di vita, della fertilità e della luce della nascita in contrapposizione al nero delle tenebre.

Il nostro percorso si sposta e termina nel cortile, sotto lo stupendo porticato, dove un grande Elmo in bronzo porta inciso su di sé lettere, numeri, simboli ed idiomi di un mondo lontano, che ci ricongiunge con il nostro passato, così come avviene anche con l’installazione Respiro, una sorta di ideogramma giapponese di colore rosso. L’impero del Sol Levante dialoga da sempre con questo luogo, in quanto proprio papa Gregorio XIII fu il primo pontefice a ricevere una delegazione nipponica: un dialogo tra culture differenti, a cui anche Paladino è sensibile e in cui ha sempre creduto.

Eccoci infine tra due figure ancestrali, totemiche forgiate in bronzo e poi dipinte, che sembrano confrontarsi, ascoltarsi, immerse nel loro tempo sospeso tra ciò che è stato e ciò che forse sarà. Osservatori, custodi o semplici testimoni, ancora una volta di quella virtù ed esperienza straordinaria che è il silenzio: tutto avvolge, assorbe, ascolta, percepisce con descrizione, ma al contempo trasforma e coinvolge in ogni dove.

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