Mario Ceroli, una mostra alle porte dell’inferno

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Davanti alla soglia della Galleria de’ Foscherari di Bologna non si odono le voci dei dannati, ne tantomeno vediamo scritto sulla porta: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. No, fortunatamente non ci troviamo innanzi all’entrata dell’Inferno e sfortunatamente non abbiamo come guida un tal Virgilio, ne tanto meno siamo così stolti da sentirci Dante Alighieri.

Tuttavia la mostra attualmente visitabile presso la storica galleria bolognese, si intitola: “La porta dell’inferno” ed il protagonista è l’artista Mario Ceroli, grande maestro, classe 1938, che ha attraversato come protagonista diverse stagioni dell’arte, tra cui anche se per poco, l’Arte Povera.

Una volta dentro lo spazio espositivo veniamo attratti da una grande installazione composta da numerose figure in legno, che sembrano essere appena sbarcate da una sorta di battello incendiato, sul quale “Caron dimonio, con occhi di bragia, loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s’adagia”.

Sono sculture che Ceroli ha realizzato tra il 1972 e il 2023 da scarti di opere precedenti, che hanno preso forma nel tempo, memori del trascorre della vita dell’arte, che simbioticamente non può prendere le distanze da quella dello stesso artista. 

Ceroli sembra dirci che è giunto il tempo di varcare l’Acheronte e addentraci nell’Ade, oppure che siamo già immersi nel regno dei morti e che non c’è più possibilità di fare ritorno. O forse no, probabilmente è un monito, un avvertimento: dobbiamo stare attenti, perché se continuiamo a percorre questa strada dell’egoismo, dell’avidità, dell’imbroglio e della violenza, la fine è inevitabilmente già scritta.

Eccoci come presenze, instabili, destrutturate, esili, impacciate, impaurite, in balia degli eventi, ad un passo dall’inferno.

Il paradiso può attendere, ci ricordava un bel film, ma sempre se non eccediamo, come scritto sopra nell’individualismo e se non produciamo troppi stracci, metafore, dei nostri eccessi e peccati, che una volta invaso la barca, certuni trovano spazio nelle pareti. Scarti di stoffa, realizzati con fogli di rame e poi bruciati con la fiamma ossidrica, abbinati al colore. 

La materia, la scultura sono stati da sempre elementi determinanti nella ricerca dell’artista di origini abruzzesi; soprattutto il legno grezzo, elemento che da forma alle sue figure apparentemente bidimensionali, la cui struttura prende vita essenzialmente con l’ombra che esse proiettano. Un dialogo costante tra pieni e vuoti, tra presenze ed assenze e che sembra aprire la possibilità ad un costante dialogo con la parte più intima e più recondita del loro “essere”.

La presenza, sia umana, che artistica, non può vivere se non in relazione allo spazio: questo, Mario Ceroli lo sa molto bene, essendosi occupato spesso di teatro, degli allestimenti scenici. Sicuramente scenografico è il luogo dove l’artista ha deciso di creare la propria dimora-studio, alle porte di Roma, e da poco visitabile, nel quale trovano collocazione più di millesettecento opere, sculture, di varie dimensioni, da piccole a molto grandi, come statue equestri, piramidi, cubi, angeli, mostri, animali, macchine ed ombre. Un luogo magico, una piccola città ideale, dove convivono arte, fantasia, realtà, mondi immaginifici, utopia e verità in cerca di identità.

Nel frattempo là fuori ci aspetta la “dotta, la rossa, la grassa”, oppure come ci ricorda Francesco Guccini: “una donna emiliana di zigomo forte, Bologna capace d’amore, capace di morte”, che in questi giorni diventa, da cinquant’anni a questa parte, anche il fulcro dell’arte contemporanea e che nel ’68, proprio presso la Galleria de’ Foscherari, ha visto Ceroli essere invitato da Germano Celant alla seconda mostra dell’Arte Povera. Tutto torna…

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