Lucio Fontana: le sculture prima dei tagli

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Il percorso del maestro dello Spazialismo parte dalla scultura per arrivare a un nuovo concetto di Arte.

Prima dei celebri buchi e tagli delle tele che lo hanno reso famoso a livello internazionale, l’artista Lucio Fontanapadre dello Spazialismo – si è dedicato alla scultura, dando vita a opere spontanee e lungimiranti che hanno gettato le basi per la costruzione di un vero e proprio mito.

Di famiglia italiana ma argentino di nascita, Lucio Fontana nasce da una relazione tra Lucia Bottini e lo scultore italiano Luigi Fontana. Da ragazzo ha la possibilità di trasferirsi a Milano per frequentare i più importanti collegi, l’Istituto tecnico Carlo Cattaneo e il liceo artistico di Brera e, dopo aver prestato servizio nell’esercito da volontario e aver ottenuto il diploma da perito edile, fa ritorno nella sua terra natale. 

E’ proprio qui che nel 1921,  a Rosario di Santa Fè, l’artista dà il via alla sua attività, lavorando assiduamente nell’officina di scultura del padre e del suo collega Giovanni Scarabelli.

Solamente tre anni dopo abbandona lo stile realistico appreso dal padre Luigi e apre il suo personale studio, in cui ha la possibilità di dedicarsi a una maggiore sperimentazione. Testimoni del periodo sono le opere scultoree Nudo e La mujer y la balde. Nella prima opera è visibile l’influenza cubista di Aleksandr Archipenko, mentre nella seconda è evidente il plasticismo di Maillol.

Fontana fa ritorno a Milano nel 1927, dove inizia a frequentare l’Accademia di Brera per dedicarsi alla scultura. Qui, un professore diventerà suo mentore: Adolfo Wildt, che sarà in grado di influenzare profondamente la produzione dell’artista, visibile nelle sculture sepolcrali che realizza per il Cimitero Monumentale di Milano.

Ma alla fine del suo percorso accademico, qualcosa cambia. In un’intervista del 1963 con Bruno Rossi, Fontana affermerà: “Avevo per guida un grande maestro: Wildt, ero considerato l’allievo migliore del corso. E Wildt, anzi, mi aveva espresso più volte che io diventassi continuatore della sua arte. Invece, appena uscito dall’Accademia, ho preso una massa di gesso, le ho dato una struttura approssimativamente figurativa di un uomo seduto e le ho gettato addosso del catrame. Così, per una reazione violenta. Wildt si è lamentato, e cosa potevo dirgli? Avevo una grande stima di lui, gli ero riconoscente, ma a me interessava trovare una nuova strada, una strada che fosse tutta mia.

Da questa volontà di innovazione e sperimentazione nasce l’opera L’Uomo Nero, del 1930, esposta lo stesso anno in occasione della sua prima mostra personale alla Galleria del Milione di Milano, curata da Edoardo Persico. Oggi andata perduta, la scultura tra gesso e catrame cerca un ritorno alle origini della forma: una figura primitiva e quasi deforme che segna uno spartiacque nella produzione artistica dell’artista.

Il 1930 vede la sua partecipazione alla XVII Biennale di Venezia  – la prima delle tante – in cui Wildt è commissario. Vittoria fascista ed Eva sono le due sculture presentate.

Successivamente Fontana entra in contatto con le avanguardie architettoniche milanesi, come Figini, Pollini e i BBPR (gruppo formato da Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers) la cui influenza è chiara nel monumento a Giuseppe Grandi, grande scultore lombardo, oggi rimasto solo un progetto mai realizzato che ha visto la collaborazione dell’artista con l’architetto Bruno Fontana, suo cugino, e l’ingegnere Alcide Rizzardi. Si trattava di un cono rovesciato e dei cristalli, un’opera di derivazione sicuramente costruttivista e razionalista.

Le opere di Lucio Fontana degli anni Trenta, quindi, sono sempre in bilico tra una figurazione espressionista, anche abbozzata, e una rarefazione della forma, analizzata nella sua bidimensionalità.

La tensione che si viene a creare nella sua produzione di quel periodo è ben evidente nel confronto fra due opere scultoree dello stesso anno, il 1934: Il Fiocinatore e Scultura Astratta.

Scultura astratta, 1934. Courtesy Collection Fondazione Lucio Fontana, Milano

Nel 1937 è a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale. Qui Lucio Fontana espande la sua rete di conoscenze grazie all’incontro con artisti come Tristan Tzara e Costantin Brancusi, e  sviluppa nuovi stimoli grazie alla visita delle opere di Picasso e dei i laboratori di ceramica di Sèvres.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’artista lascia nuovamente l’Italia e dal 1940 al 1947 vive in Argentina, dove insegna decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Buenos Aires. Qui, insieme ai suoi studenti e ad alcuni artisti argenti firma il Manifesto Blanco (Manifesto Bianco) che recita: “Materia, colore e suono in movimento sono i fenomeni il cui sviluppo simultaneo costituisce la nuova arte”.

Si tratta del testo fondante dello Spazialismo, corrente artistica di cui Fontana è l’inventore.

Una nuova arte, basata sull’unità di tempo e spazio, stava per nascere in questo periodo.

Fa ritorno a Milano nel 1948 ed espone il suo primo Ambiente Spaziale a luce nera alla Galleria del Naviglio: una gigantesca installazione temporanea con una forma indistinta sospesa nel vuoto in un ambiente buio, illuminata da una luce al neon.

Dal 1949 ha inizio la produzione di Concetto spaziale: un titolo generico che individua la maggior parte delle opere d’arte pittoriche successive, distinte in Buchi e Tagli, che inizierà a creare dalla metà degli anni 50. Le famosissime tele sono rivestite sul retro da una garza nera, per far emergere l’oscurità svelata dagli squarci aperti realizzati dall’artista, per un senso di profondità e per rendere evidente al pubblico lo spazio oltre la tela.

Sono queste le opere che portano il nome di Lucio Fontana in giro per il mondo, permettendogli di ottenere un successo internazionale, a partire dalla sua prima personale presso la Martha Jackson Gallery di New York nel 1961.

Nel 1951 Fontana realizza Luce spaziale – Struttura al neon che anima la IX Triennale di Milano: un neon continuo che si intreccia più e più volte appeso a un soffitto colorato di blu, progettato con gli architetti Baldessari e Grisotti. L’opera sembra fermare all’infinito il movimento di una torcia elettrica nel buio, o uno schizzo su carta. Nello stesso l’artista scrive il famoso Manifesto tecnico dello Spazialismo.

Lucio Fontana, Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, 1951. Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano

Se nel 1949/1950 Fontana perfora la membrana della tela per distruggerne la bidimensionalità nel ciclo Buchi, dal 1958 in poi la sua pratica subisce un ulteriore sviluppo e le sue tele iniziano a presentarsi monocromatiche e opache, focalizzando l’attenzione dello spettatore proprio sull’elemento del taglio.

Nella serie degli anni Sessanta, La Fine di Dio, le opere sono realizzate tutte su telai ovali della stessa dimensione e si distinguono per le costellazioni di buchi e squarci che l’artista pratica su di esse. “Per me significano l’infinito, – spiega l’artista in un’intervista del 1963 con Carlo Cisventi – la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla“.

Fontana con quattro opere della serie ‘Fine di Dio’ – Orazio Bacci

Oggi, le opere del grande maestro dello Spazialismo si trovano nelle collezioni permanenti di oltre cento musei sparsi in tutto il mondo: dallo Stedelijk Museum di Amsterdam al Centre Pompidou di Parigi, dal MoMA di New York alla GNAM di Roma e dal Museum of Contemporary Art di Villa Croce a Genova al Van Abbemuseum di Eindhoven.

Cover Photo Credits: Lucio Fontana, ‘Ambiente spaziale a luce nera’, (1948-49/2017), veduta dell’installazione in Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017, Courtesy: Pirelli HangarBicocca, Milano – ©Fondazione Lucio Fontana, ph: Agostino Osio

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