Loredana Galante. A Palazzo Tagliaferro un percorso per oggetti poetici

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Da una parte l’azzurro vivido dei Tableaux, dove il gioco cromatico degli azulejos si alza all’improvviso nella consistenza polposa del ricamo, una sottolineatura rossa come una goccia di sangue, dall’altra il lavorio incessante dei ragni tessitori, tra gusci di uova e centrini antichi.

Attraversare le Scacchiere dell’immaginario, l’antologica di Loredana Galante – ad Andora, a Palazzo Tagliaferro, fino al 10 marzo – è un’esperienza immersiva (molto più potente e calda, in effetti, di quello che oggi comunemente si intende per immersivo) che in qualche modo ci riconnette a noi, a memorie più o meno sepolte. 

I Tableaux, dicevamo, che messi uno accanto all’altro sembrano sostanziare il mare delle nostre estati di bambini, ciuffi bianchi di schiuma nei quali ci si vorrebbe tuffare e, qua e là, oggetti d’affezione, volti, dialoghi. Le piastrelle di stoffa, nate dai Tile tales – racconti raccolti da Galante come in un’enciclopedia delle memorie perdute – che sembrano invitare ad attraversarle, a saggiarle a piedi nudi, con gli occhi chiusi, magari, cercando di indovinare solo con il potere del tatto il senso delle parole ricamate o degli intarsi di stoffa.

E poi la pittura, grande, dilagante come un abbraccio: storie quotidiane di casa e di famiglia in cui i tavoli, le sedie, gli oggetti sembrano perennemente percorsi da una vibrazione sottile, come se stessero per spiccare il volo o mettersi a parlare, e intanto quella che dovrebbe essere la parete si spalanca in un cielo che ha il sapore della poesia di Chagall. E ancora gli oggetti, recuperati da un passato misterioso e poi trasformati, come quel paio di collant lunghi, lunghissimi, lo strumento di seduzione di una gigantessa vezzosa, la cui conca ora accoglie, come un utero vegetale, una pianta in pieno rigoglio. E i ragni, piccoli o grandi, candidi come trine o rosa cipria, appesi guardinghi ai fili della loro ragnatela o arrampicati lungo le pareti, cugini delle Maman di Louise Bourgeois che tenevano le uova strette al petto, ma più allegri e dispettosi, ripuliti dalla malinconia dell’artista francese. 

Pur essendo un’artista che si mette alla prova con tutti i mezzi – dalla fotografia alla performance, dalla scultura alla pittura – è il ricamo che in qualche modo più di tutto identifica Galante, quella forma antichissima e femminile di scrittura attraverso il filo capace di parlare una lingua universale, di incantare e di avvolgere. Un procedere che, insieme all’uso del tessuto, pone l’artista al centro di uno dei movimenti più caldi del momento, la fiber art. Declinata però, nel suo caso, sempre al recupero: le sue stoffe non sono mai neutre, ma possiedono sempre un vissuto, memorie, storie, spesso legate alla stessa famiglia dell’artista. Così come gli oggetti delle sue installazioni (non a caso più che di obJet trouvé Galante ama parlare di objet chercé) nelle quali lei racconta la vita, gli intrecci amorosi, il corpo e l’erotismo con la grazia esplicita di chi sa che la verità non è mai inopportuna.

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