L’inerte furore: lo spazio urbano nella fotografia di Gabriele Basilico.

Quando il Creatore distribuiva prerogative, Gabriele Basilico (1944-2013) era impegnato a fotografare il suo intorno, potrebbero pensare gli osservanti. A bearsi della sua immensa produzione, infatti, parte della quale allestita nella Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale fino all’11 febbraio 2024 e parte negli spazi di Triennale Milano fino al 7 gennaio, non si stenta certo a crederci. Voluta per il decennale della morte dell’artista, Le mie città è una grande mostra personale, articolata in due esposizioni, che rappresenta l’omaggio a uno dei più grandi fotografi italiani contemporanei.

In queste righe, in particolar modo, cercheremo di restituire almeno un’esiguità delle impressioni di quanto osservato all’ombra del Duomo, dove un’ambientazione magnificente anche nella sua decadenza sembra riuscire ad affermare ed enfatizzare ma allo stesso tempo incrinare e negare la plastica materialità dei soggetti di Basilico. Alludo, forse si capisce, all’intricata estetica della Sala delle Cariatidi, dove la consistenza delle sue aggettanti decorazioni un tempo fastose delinea oggi uno scenario architettonico pesantemente compromesso dal bombardamento del 15 agosto 1943, poco meno di un anno prima della nascita dell’artista in quella stessa Milano in ginocchio. 

Qui, fra i pannelli della curatela di Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia, le città di Basilico emergono nella risoluta perpendicolarità delle strade e nella verticalità dei palazzi europei, arcigni monoliti mossi appena da insufficienti aperture, utili comunque ad incontrare il cielo. Qui, con noia esotica, attraversiamo le roventi periferie sudamericane, trionfanti di materiali di (s)fortuna in una caotica fisionomia, e ci riversiamo negli stradoni della Mitteleuropa, un tempo teatro di solenni parate monarchiche e oggi moralmente alleggerite da edifici elicoidali o dalla vacuità dei grandi pannelli pubblicitari. 

Parigi, Shangai, Rio, Mosca, Tel Aviv, Boston, Liverpool, Valencia, Montecarlo, Londra, Istanbul e tante altre, attraversando l’urbanistica nostrana fra Napoli, Firenze, Roma e quindi indugiando su Milano, sua città natale, sono solo parte del lunghissimo viaggio di Gabriele Basilico attraverso gli imponenti agglomerati umani del nostro mondo che oggi, nella metropoli, crede erroneamente di potersi sublimare. «Fotografo il vuoto come protagonista di sé stesso», ebbe ad affermare manifestando la sua intenzione di carpire l’essenziale natura di Giano bifronte della città, processo coniugante passato e presente, ricchezza e povertà, valore e disvalore, flora e fauna.

Alla documentazione del fatto urbanistico Gabriele Basilico giunge attraverso la lente dell’indagine sociale, alla fine dei Sessanta, quando osservare in profondità i quadri umani della vita moderna – come il fotografo comprese, da professionista, prima di altri – già aveva il sapore del sentimento di massa. Questa sua missione conoscitiva, ammantata di quello spirito indagatore comune solo ai grandi, grandissimi reporter, parlerà presto di sentimento del luogo e di paesaggio, le cui porzioni, sapientemente se(le)zionate dall’obiettivo lombardo, hanno il merito di ripercorrere la formazione della realtà urbana contestualmente ai sismi intervenuti nell’immaginario collettivo; laddove, a ben vedere, l’urbanesimo non cessa di dividere, ora incalzato dagli eccessi ecologici ed ora dalle modificazioni sociali che rintracciamo nei meccanismi di gentrificazione o di vera e propria ghettizzazione, manifesta in tanti quartieri popolari.

D’altra parte, se si ammette che la storia dell’uomo sia anche ciò che resta del suo intervento sulla materia e quindi sulla pietra, come da migliaia di anni accade, allora la città si rivela non solo il più compiuto esempio di scrittura culturale, ma soprattutto la più efficace e appropriata unità di misura di una complessità che sempre più fatichiamo a gestire. Nel cemento, emblema strutturale della nostra capacità di imprigionare il mondo compiacendocene, scorgiamo gli effetti più deleteri ma anche le edificanti possibilità civili dell’uso umano dello spazio, che non interroghiamo mai a dovere perché unicamente impegnati a trasformarlo, ignorando che non consultarlo presenti sempre un conto salato.

Gabriele Basilico non intende certo mostrare le città per quel che sappiamo o aneliamo di loro, magari forestieri in cerca di stupore e monumentalità, ma disvelare, nei vuoti che ritrae, nell’alternanza di costruito e desolato, ciò che non siamo disposti ad accettare, ovvero il limite alla nostra possibilità di organizzare, determinare, circoscrivere. A pochi metri da un altro grande della fotografia contemporanea come Jimmy Nelson, che orienta la sua lente verso la cangiante varietà umana che vorremmo celare, Le mie città si preoccupa invece di mostrarne l’inerte furore; rappresentando un inno alla fotografia perché, senza retorica e con secca eloquenza, ne afferma tutta la potenza rivelatrice e di denuncia mostrando comunque ciò che più diamo per scontato. Perché non basta uno smartphone, che tutt’al più fissa le contraddizioni del nostro ego: dipingere quadri di mondo è una roba seria. 

Photo Credits: Nicolò Atzori

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