Guido Harari: “Ho fotografato star del rock e dive. Ma ogni scatto è una magia”

Incontri. 50 anni di fotografie e racconti alla Fabbrica del Vapore di Milano sino al 1° aprile. Un caleidoscopio di ritratti nitidi e iconici da far girare la testa agli appassionati di musica (e non solo). Oltre 300 fotografie, installazioni e filmati originali, proiezioni e incursioni musicali, esposti nell’antologica dedicata a Guido Harari per ripercorrere tutte le fasi della sua eclettica carriera. Dagli esordi in ambito musicale come fotografo e giornalista, alle numerose copertine di dischi per artisti come Fabrizio De André, Bob Dylan, Vasco Rossi, Kate Bush, Paolo Conte, Lou Reed, Frank Zappa. Cognome di origine siriana, nato al Cairo da famiglia italiana fuggita a Milano dopo la crisi di Suez, Harari è colui che ha “inventato” in Italia negli anni Settanta e Ottanta il mestiere del fotografo da palco, per poi immortalare, in ritratti che hanno fatto epoca, le più grandi star del rock e del pop, e i più importanti registi, scrittori, fotografi e personalità italiane e mondiali da Madre Teresa a Liliana Segre.

Jannacci, Giorgio Gaber e Dario Fo by Guido Harari

La prima foto che mi viene in mente quando penso a Guido Harari è quella che campeggia in Stazione Centrale a Milano, che rappresenta insieme Jannacci, Giorgio Gaber e Dario Fo. Mi racconti come è nata?

È una foto che ho realizzato al Castello Sforzesco, a Milano, nei primi anni Novanta, quando Jannacci aveva organizzato due concerti per festeggiare i suoi Trent’anni senza andare fuori tempo. Ero stato invitato a realizzare la copertina del disco registrato dal vivo, sapevo ovviamente che sarebbero venuti amici di tutta una vita a trovarlo e quindi anche Giorgio Gaber e Dario Fo, era dunque l’occasione ideale per fotografare i tre insieme, cioè il Maestro e i suoi allievi. La cosa si è concretizzata molto rapidamente su questo piccolo set che avevo improvvisato dietro il palco e dove ogni tanto, tra una pausa e l’altra, lo fotografavo con Cochi, Abatantuono e altri. A un certo punto arrivarono loro, fu proprio come dire, una fiammata di pochi fotogrammi, tre o quattro, tra cui appunto quello che è in Stazione Centrale. 

Un fotogramma che è diventato iconico.

Eh, sì. Non saprei dirti perché, però c’era una grande vitalità in quella foto e credo che sia questa la chiave. C’era molta energia, io ero al settimo cielo, era un sogno fotografarli insieme.

David Bowie
David Bowie by Guido Harari

I tuoi ritratti, appunto, di star della musica sono nel nostro immaginario. Qual è stato il primo contatto che hai avuto con il mondo del rock?

Nei primi anni Settanta quando avevo così cominciato a coccolare l’idea di saltare dall’altra parte; quindi, di non essere un semplice fan, che consumava dischi e andava ai concerti, ma di voler trovare una strada per riuscire a conoscere questi artisti. Li sentivo come parte di una stessa famiglia, della stessa tribù e quindi mi ci riconoscevo totalmente.
Erano tempi in cui tutto questo era molto semplice non c’erano guardie del corpo, non c’erano pass, non c’era ufficialità e bastava mostrarsi per quello che si era, cioè degli appassionati. Ho sempre pensato che quello che andava costruito non fosse legato ad una professionalità, ma ad una sensibilità e non alla luce della loro leggenda. Gli artisti andavano vissuti nel presente e accompagnati nel loro futuro.

Lucio Dalla by Guido Harari

Nella mostra c’è una sala Italians dedicata ai ritratti di personaggi che rappresentano un po’ l’eccellenza italiana. Sei sempre stato tu a scegliere i soggetti? 

Ci sono stati momenti, in cui ho ricevuto dei cosiddetti commissionati da riviste, e da case discografiche. Però ho sempre avuto l’abitudine e il desiderio di contattare direttamente i personaggi che mi incuriosivano,  alla fine degli anni Novanta avevo fatto una sorta di lista della spesa dei personaggi che avrei voluto fotografare e che poi fortunatamente ho realizzato : Monicelli, Armani, Carmelo Bene, Monica Vitti, Castiglioni, Totti, Baggio, insomma personaggi di tutte gli ambiti e che componessero un affresco di quella che era l’Italia di quel momento che poi era il momento di passaggio dal Novecento al 2000. Poche settimane fa ho ritratto l’artista iraniana Shirin Neshat, che desideravo fotografare da anni, finalmente sono riuscito ad incontrarla ed è stato bellissimo non solo dal punto di vista fotografico, ma soprattutto a livello umano.

Quando scatti una foto cosa vorresti comunicare a chi la guarderà, cosa ti piacerebbe che riuscisse a vedere?

Non me. Nel senso che non mi interessa essere riconoscibile come autore della foto, non mi interessa neanche avere uno stile. Mi interessa condividere gli incontri che ho avuto con persone che in moltissimi casi sono anche fonte di ispirazione. Riuscire a far vedere il soggetto in una chiave insolita, inedita, ironica, e che permetta di aggiungere qualcosa all’immaginario che si ha di quella o di quel personaggio e soprattutto riuscire a farlo cogliendo qualcosa di autentico, di non costruito è un po’ un’utopia, ma diciamo che spesso ci sono riuscito.

Dario Fo e Franca Rame by Guido Harari

Quali sono le foto cui ti senti più legato? Quella per cui ti sei detto: “sono proprio contento di averla fatta”?

Sono tante, penso al ritratto di Ennio Morricone, a quella che abbiamo già citato di Gaber, Fo e Jannacci. Più che alle foto sono legato agli incontri che poi si sono trasformati in foto, in ricordi e in frequentazioni, per esempio con De André, Kate Bush, Lou Reed, Paolo Conte, Pino Daniele ce ne sono veramente parecchi e so che ne sto lasciando fuori altrettanti. In questi casi l’aspetto fotografico non è stato fine a sé stesso, ma ha prodotto un incontro e quindi poi qualcosa che si è riverberato negli anni. La possibilità di un dialogo, per quanto breve, con personaggi del calibro di Saramago, Carmelo Bene è veramente un privilegio.

Qual è stato lo scatto per te più difficile?

Ma direi le foto in cui il soggetto si è rivelato un po’ recalcitrante, cioè meno desideroso di mettersi in gioco, di sperimentare qualcosa di diverso.È successo con Armani che ha un controllo veramente di ferro della propria immagine, nei primi scatti che gli ho fatto, poi ci siamo rivisti in altre occasioni ed è stato tutto molto più facile. Dipende molto dal momento, bisogna tener presente che sono due vite che si incrociano in un particolare momento che non sempre è favorevole.  Incontrai Roger Waters alla fine del divorzio dalla prima moglie, era intrattabile, nevrotico, l’ho rivisto dieci anni dopo, in un altro momento della sua vita, con una nuova compagna, con una carriera solistica ormai lanciata ed era completamente diverso.  Bisogna mettere in conto questo quando si fanno dei ritratti, che quello che resiste è proprio la chimica di quel momento e non è la rappresentazione totale, non è mai la rappresentazione totale del soggetto.

Ada Merini by Guido Harari

In mostra ho visto una bellissima foto di Alda Merini nella sua casa sul Naviglio.

L’andai a trovare insieme all’attrice Licia Maglietta, che stava portando in teatro dei testi della Merini. Mi colpì molto sia lei come persona, ma anche tutto il caos che regnava nel suo piccolo appartamento, che poi era il caos del manicomio che lei aveva voluto ricreare perché ormai era la sola dimensione in cui riusciva a vivere.
Mentre chiacchieravamo le arrivò una telefonata e lei andò a rintanarsi in camera da letto per rispondere, la seguii e la vidi riflessa in questa specchiera con tutti i numeri di telefono scritti col rossetto e scattai…

Chi avresti voluto fotografare e non sei riuscito a farlo? Dammi almeno cinque nomi…

Francis Bacon, Aretha Franklin, Warhol, Hendrix e i Beatles all’apice del loro successo, quando erano ancora insieme. Ma io ero troppo ragazzino per poter sperare di fotografarli. Li ho fotografati dopo individualmente, a parte Lennon, ma ho conosciuto Yoko Ono, è stato bellissimo incontro che poi ha generato anche una frequentazione negli anni.

Che futuro avrà (se ce l’avrà) la fotografia? 

In una battuta, se c’è un futuro per l’uomo allora ci può essere anche un futuro per la fotografia. Però mi sembra che la speranza di un futuro per l’uomo si assottigli sempre di più.
E anche la fotografia comincia a essere sempre meno prioritaria di fronte ad altre responsabilità. La fotografia, però, è anche memoria, io mi auguro che ci sia sempre e ci sarà fino alla fine qualcosa di prezioso da salvaguardare e da fissare per chi verrà dopo di noi.
Non importa con quale mezzo questo venga registrato…

Pensi all’intelligenza artificiale?

Quella lascia il tempo che trova, quello che conta è lo sguardo e dietro lo sguardo ci deve essere un pensiero e la facilità di utilizzo di certi congegni oggi lo esclude, privilegia più la quantità che la qualità. Adesso siamo nella ubriacatura dell’intelligenza artificiale. Non so come ne usciremo, probabilmente estinti. Zuckerberg diceva entro il 2050 tutte le malattie saranno estinte, e io ho subito pensato: forse saranno estinte perché sarà estinto l’uomo…

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