“Creature di sabbia” in mostra a Lecce, rappresentazione corale di una sofferenza

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A ospitare la mostra è il palazzo dell’Ex Conservatorio di Sant’Anna, a Lecce al quale si accede percorrendo uno scalone centrale da via G. Libertini, proprio accanto alla Chiesa da cui il conservatorio prende il nome.

Non credo sia un caso che “Creature di sabbia” trovi luogo qui. Superando la sala iniziale, si entra nel pieno dell’esposizione e dopo l’ingresso, le altre tre sale sono divise tra le quattro artiste. Il percorso è libero e gli spettatori possono muoversi autonomamente nello spazio della mostra.

La mostra è il risultato di un lavoro di studio e ricerca durato circa sei mesi. Le quattro giovani artiste, la tunisina Rafika Ferchichi, la marocchina Salma Hilmi e le iraniane Khathereh Safajoo e Mehrnoosh Roshanaei, a maggio, in una residenza d’artista al Museo Castromediano, hanno riflettuto sul ruolo della donna, sulla violenza di genere e sui dolori della guerra e della privazione della libertà a dodici anni dalla primavera araba. Il percorso di elaborazione, in cui sono state affiancate da colleghi e professionisti, ha portato alla realizzazione di quattro opere molto diverse tra loro.

Il titolo scelto “Creature di sabbia” si ispira al romanzo di Ben Jelloun e rappresenta l’atto finale del progetto promosso dall’Agenzia per il patrimonio culturale euromediterraneo in collaborazione con il Positivo Diretto, il Polo Biblio-museale di Lecce, il Comune di Lecce e N.O.I. Salento.

Secondo i curatori della mostra, Andrea Laudisa e Alice Caracciolo: “La creatura di sabbia del romanzo di Ben Jelloun è una creatura mutevole, plasmabile, capace di ridefinire sé stessa e resistere alle pressioni esterne con coriacea forza. È stato facile quindi osservare una forte convergenza simbolica tra il personaggio del romanzo e le quattro artiste in mostra. Attraverso una pluralità di linguaggi espressivi, le artiste si sono confrontate con la riscoperta delle proprie radici e hanno affrontato il limite percettivo delle diversità culturali parlando un linguaggio universale”.

Camminando tra le sale, quasi spoglie, in cui il tufo, chiaro e poroso, contrasta con la potenza espressiva delle installazioni, al visitatore è lasciato il compito di farsi guidare dalle sensazioni e lasciarsi trasportare. E così che si arriva nella vita privata di una donna violentata dal proprio marito, o di una ragazzina costretta a fuggire via per paura, di un soldato ucciso quando era poco più di un ragazzo, di una madre che soffre perché non riesce a concepire una tale perdita, di un detenuto che, condannato a morte, sente le voci di bambini che giocano poche centinaia di metri più in là.

Mehrnoosh Roshanaei è nata e cresciuta a Teheran, in Iran. Ha studiato arti visive e oggi lavora sul concetto di indipendenza, sfidando le acquisite nozioni sull’identità ed enfatizzando il valore della diversità. La sua videoinstallazione è un omaggio alle vittime della rivoluzione avvenuta in Iran al grido di Donna Vita Libertà, in seguito all’arresto e alla morte di Mahsa Amini nel 2022. Attraverso la rappresentazione di una eclissi lunare, l’autrice racconta principio, svolgimento e fine di un evento naturale, che diviene metafora della rivolta stessa. In abbinamento alla proiezione, la componente sonora è data dalla voce di una madre che canta una nenia al figlio defunto, interrotta da uno sparo secco, che coincide con il momento di distruzione dell’eclisse.

Khatereh Safajoo, classe 1992, nasce anche lei a Tehran. Scenografa e artista multimediale, è conosciuta per la pratica nei campi dell’arte dell’installazione e dell’arte 3D. Nelle sue opere, ridisegna spazi e ambienti, mettendo insieme elementi sonori, visivi e percettivi. L’opera è composta da un ricordo d’infanzia: i giorni che, da bambina, trascorreva in un luna-park di Teheran, situato nei pressi di un carcere. Nella stanza buia, tra le parole dei bambini, le loro risate e i rumori delle giostre, è stata posta una scritta a neon di colore rosso che proclama: “Il sangue non si lava via con niente”. Il contrasto è dato dal rapporto tra l’innocenza e l’incoscienza della tenera età e la necessità di proteggere le giovani generazioni dal dolore di un futuro drammatico.

Rafika Ferchichi, nata a Tunisi nel 1978, laureata in scultura, è attualmente iscritta all’Accademia di Belle Arti di Bari. Porta l’arte della sua famiglia in mostra. Figlia di tappezzieri, utilizza la iuta e l’asfalto per realizzare tappeti dal forte valore simbolico, in cui una storia universale di dolore e sofferenza si intreccia con vicende personali, ma comuni. A materiali poveri, come la lana, combina la stabilità dell’asfalto e la sensibilità della parola scritta, come in un diario in cui tenerezza e rivalsa si uniscono e il cui futuro, seppure appaia immutabile, è ancora da scrivere.

Salma Hilmi è studentessa presso l’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, graphic e visual designer. L’opera nasce da un’applicazione per smartphone pensata come strumento per la prevenzione della violenza sulle donne. Nella stanza, dedicata a lei, testimonianze visive e sonore di donne si sovrappongono, formando un’installazione multimediale fatta di testi e suoni in cui la collettività femminile, nella drammaticità delle situazioni raccontate, può vedersi rappresentata. Su una delle pareti della stanza è stato posto uno specchio, sul quale si legge la scritta di un verso del Corano che recita “Dio creò gli esseri umani a partire da una sola persona o anima”.

Alla mostra non sono andata da sola. La persona che era con me mi ha fatto riflettere su una cosa che non avevo notato.

Da una finestra della sala più grande, che affaccia sul cortile interno, si vede un ficus che le pareti del palazzo custodiscono dall’occhio della strada. Probabilmente piantato alla fine dell’Ottocento, l’albero, snello e nodoso, sembra voler rappresentare che, anche attraverso storie di disperazione personali e collettive, la vita è capace di continuare a “esistere”, a germogliare e a mettere nuove e salde radici.

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