Chris Ofili rende omaggio a Khadija Saye, giovane artista morta nel rogo della Grenfell Tower. A Londra, alla Tate Modern

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di Alessandro Riva

Si intitola Requiem. Ed è un requiem, nel vero senso della parola (requiem aeternam dona eis, Domine, “eterno riposo dona a loro, o Signore”), un omaggio ai morti, e in particolare a una giovane artista morta – Khadija Saye, 24 anni appena, nata a Londra e di origine gambiana –, l’ultimo lavoro che Chris Ofili, uno degli ex “bad boys” della YBA, la Young British Art che esordì, con Damien Hirst, Marc Quinn, Tracey Emin e molti altri, nel 1997 con la mostra-scandalo “Sensation” alla Royal Academy of Arts di Londra, ha appena finito di realizzare alla Tate Modern, nei vasti spazi sulla parete centrale della scalinata settentrionale, dove fino a pochi mesi campeggiava il grande affresco geometrico di David Tremlett.

Fotografia della serie “Dwelling: in this space we breathe” di Khadija Saye esposte al padiglione Diaspora durante la 57a Biennale di Venezia. Fotografia: Khadija Saye

I morti, di cui la povera e talentuosissima Khadija Saye faceva purtroppo parte, sono quelli deceduti nel drammatico incendio della torre Grenfell Tower, a Londra, il 14 giugno 2017: 72 persone che persero la vita tra le fiamme per un disastro annunciato: la torre infatti era stata rivestita, appurò un’inchiesta aperta successivamente (ancora scandalosamente in corso dopo 6 anni, senza che i responsabili siano stati assicurati alla giustizia), con pannelli ad alto rischio di infiammabilità, forniti da aziende che non si erano fatte problemi a commercializzarli per risparmiare soldi a scapito della sicurezza degli inquilini. Un avvenimento non casuale, dunque, ma facilmente prevedibile, causato da cupidigia, mancanza di controlli, superficialità, disprezzo delle regole e indifferenza (nell’incendio morirono anche due ragazzi italiani, la 26enne Gloria Trevisan e il 27enne Marco Gottardi). “Era il sottoprodotto diretto di un sistema”, ha dichiarato Ofili. “E oggi dobbiamo chiederci: ‘Che cosa ha fatto sì che una cosa del genere potesse accadere?’. Perché sono gli esseri umani ad aver fatto questo: non è stata nessuna intelligenza artificiale”.

Chris Ofili di fronte a The Caged Bird’s Song, 2017, National Gallery, Londra, Source: The Telegraph.co.uk

Ofili, cresciuto a Manchester da genitori nigeriani, aveva conosciuto Khadija Saye a Venezia, nel maggio del 2017, durante l’inaugurazione della mostra personale dell’ex prodigio della YBA nella sede veneziana della galleria Victoria Miro. La mostra si intitolava “Poolside Magic”, e ruotava intorno ai temi della sensualità, della magia e dell’occulto, ed era ispirata alla vivacità e all’erotismo del paesaggio e della cultura di Trinidad, dove l’artista vive fin dal 2005. A un tratto, qualcuno lo avvertì che c’era una giovane ragazza, un’artista, che voleva conoscerlo. Era un’artista di origine gambiana, e, ricorda oggi Ofili, “aveva una presenza davvero radiosa”. “C’era una presenza innegabilmente genuina e onesta in lei. E ho detto sì, certo che voglio incontrarla! Ci siamo fatti un selfie e abbiamo scambiato qualche parola. Ma è stato sufficiente per realizzare: ‘Questa ragazza è una fantastica persona e spero che faccia davvero della buona arte, perché questa combinazione può essere davvero speciale!”.

Non sapeva, Ofili, che quello sarebbe purtroppo rimasto il solo e unico incontro con Khadija Saye. Khadija in quel periodo faceva parte di un gruppo di artisti emergenti che stavano esponendo alla 57. Biennale di Venezia, al Padiglione della Diaspora, che si teneva presso Palazzo Pisani S. Marina: concepito come una sfida alla prevalenza dei padiglioni nazionali all’interno della struttura della Biennale, ideato e promosso dall’International Curators Forum e dall’Università delle Arti di Londra, il Padiglione della Diaspora metteva in luce “la dolorosa storia di sfollamenti, lavoro forzato, imperialismo e colonizzazione” subita da parte dei neri nel corso dei secoli. Il lavoro di Khadija era – come raccontò lei stessa in un’intervista rilasciata in occasione dell’uscita del progetto veneziano – incentrato sull’identità e sulla spiritualità dei neri della diaspora, sospeso tra nostalgia, memoria e tradizioni locali. “Sono stata ispirata dal mio background e dalle persone vicino a me”, ha detto l’artista. “Dal momento che le persone che vedranno il lavoro al Padiglione della Diaspora saranno molto diverse, non volevo fornire troppe nozioni o preconcetti su cosa sia la spiritualità, ma vorrei che loro si chiedessero cosa significa per loro spiritualità. Il prossimo passo”, ha detto, “sarà quello di continuare a stimolare queste domande per espandere il lavoro, perché penso che sia importante cominciare prima di tutto da me stessa per poi andare oltre”.

Cresciuta a Ladbroke Grove, nella periferia ovest di Londra, in una famiglia a doppia fede, cristiana e musulmana, Khadija ha passato l’infanzia frequentando la chiesa con la madre cristiana e la moschea con il padre musulmano. Il suo rapporto con la spiritualità e la sua eredità gambiana hanno plasmato profondamente la sua pratica artistica, così come l’attivismo per cause di giustizia sociale e di aiuto a bambini, ragazzi e persone fragili è stata una delle sue caratteristiche umane e politiche. Attivissima, curiosa, generosa e instancabile, Khadija non solo viveva la sua condizione di giovane donna nera con un’energia e una generosità fuori dal comune, ma coltivava anche un grandissimo interesse per la memoria e la storia del suo popolo e in generale della condizione dei neri della diaspora.

Fotografia parte della serie “Crowned” del 2013

Uno dei suoi primi cicli di lavori, “Crowned”, del 2013, era costituito da una serie di fotografie che celebravano la creatività e la diversità dei capelli delle donne afro-caraibiche. Nel 2016 – solo un anno prima che si compisse il suo tragico destino –, Khadija partecipa a un seminario condotto da artisti sui ferrotipi al collodio del XIX secolo presso Autograph, galleria londinese fondata nel 1988 per sostenere le pratiche fotografiche dei neri. Qui apprende la pratica del ferrotipo e del collodio umido, tecniche di stampa ottocentesche basate sull’immersione su lastre di metallo o di vetro, di cui si innamora, e che soprattutto sembra la tecnica ideale per congiungere in lei memoria del passato e tempo presente, storia, identità, impegno e ricerca profonda delle proprie radici.

Il ciclo successivo di lavori, infatti, “Dwelling: in this space we breathe” (“Dimora: in questo spazio si respira”), del 2017 – quello che esporrà poi al padiglione della Diaspora – sarà già un’opera estremamente matura e, col senno di poi, quasi tragicamente profetica (la maggior parte delle foto originali, con l’eccezione di quelle esposte a Venezia, finiranno anch’esse bruciate nel rogo della Grenfell Tower). La sensazione, infatti, è che attraverso quegli scatti l’artista stesse cercando una connessione con le sue radici e i suoi antenati, per parlare di sé, della sua più profonda intimità, delle sue sofferenze e fragilità, attraverso il grimaldello della storia, delle memorie e dei riti del suo popolo. E lo stesso titolo dell’opera – in this space we breathe – lascia oggi storditi, quasi senza fiato, proprio per quel riferimento al respiro, per una giovane donna che solo pochi mesi dopo perderà la vita proprio nell’infermo irrespirabile della torre in fiamme.

Fotografia della serie “Dwelling: in this space we breathe” di Khadija Saye esposte al padiglione Diaspora durante la 57a Biennale di Venezia. Fotografia: Khadija Saye

Il soggetto delle foto è la stessa artista, la tecnica quella del collodio umido, i riferimenti sono l’identità spirituale gambiana, la memoria, e il trauma. In ogni foto di questa serie, Khadija raffigura infatti sé stessa con in mano un oggetto rituale e sacro del suo popolo, per trasmettere l’importanza del suo legame personale con i rituali dell’Africa occidentale, dalla purificazione alla protezione. Gli oggetti includono conchiglie, amuleti, un vaso di terracotta, corna di animali e bastoncini da masticare. “Questa serie”, ha detto l’artista, “è stata creata da un bisogno personale di radicamento spirituale dopo aver subito un trauma. La ricerca di ciò che dà significato alle nostre vite e ciò a cui ci aggrappiamo nei momenti di disperazione e di sfide che cambiano la vita. Esistiamo nell’unione del ricordo fisico e spirituale. È in questi spazi in cui ci identifichiamo con i nostri corpi fisici e immaginari. Usando me stessa come soggetto, ho ritenuto necessario esplorare fisicamente come il trauma si incarna nell’esperienza nera”.

Lo stesso processo della tecnica al collodio, basato com’è sull’esposizione di fragili lastre di vetro, ha l’aspetto dell’imprevedibilità e della ritualità: per Khadija, questo processo ha rafforzato l’aspetto rituale del lavoro e l’abbandono di se stessa alla spiritualità e a un potere superiore. “Esplorando le nozioni di spiritualità e rituali, il processo di creazione delle immagini è diventato esso stesso un rituale. Il processo di realizzazione dei ferrotipi al collodio umido è unico, nel senso che nessuna immagine può essere replicata e il risultato finale è fuori dal controllo del creatore. All’interno di questo processo ti arrendi all’ignoto, allo stesso modo in cui è richiesto da tutti i poteri spirituali superiori: arrendersi e sacrificarsi”. “Ogni ferrotipo”, ha continuato l’artista, “ha la sua storia unica da raccontare, una metafora del nostro viaggio spirituale umano individuale. Il processo di immersione della piastra ricoperta di collodio in un serbatoio di nitrato d’argento accende i ricordi dei battesimi, l’idea di purezza e come ci purifichiamo per essere spiritualmente sani. L’applicazione del collodio trascende il processo fotografico, è un riflesso, una manifestazione fisica del mio rapporto con la tradizione profondamente radicata della spiritualità africana”. Quando lavorava a questa serie, Khadija racconterà di aver dimenticato di vivere il momento presente, rimanendo nel silenzio assoluto e lavorando sulle proprie connessioni interne. Quasi si trovasse in una zona altra, al di là della sua presenza fisica nel mondo, collegata alle sue memorie ataviche, ai suoi antenati, ai suoi protettori. In uno stato, potremmo dire oggi, di pre-morte.

Requiem di Chris Ofili, 2023 (dettaglio) commissionato per la scalinata nord della Tate Britain
© Chris Ofili. Per gentile concessione dell’artista. Fotografia: Thierry Bal

A quelle connessioni, a quella straordinaria ricerca delle proprie radici spirituali, ha cercato oggi Chris Ofili di dar nuovamente voce, dopo la tragica fine della giovane artista nell’incendio della Grenfell Tower. La stessa Khadija vi compare al centro, trasfigurata dalla pittura potente e ancestrale di Ofili, raffigurata come lei stessa si era autorappresentata in uno scatto della serie “Dwelling: in this space we breathe” (quegli scatti che lo stesso Ofili considera “straordinari, mistici e alchemici”). Emergendo da un grande cerchio giallo e arancione, come in un’ancestrale raffigurazione sacra, circondata dalle anime dei defunti, Khadija tiene all’orecchio un andichurai, un antico vaso di incenso del Gambia che apparteneva alla sua famiglia, e che possedeva la sacralità di un oggetto rituale, di collegamento, appunto, tra mondo fisico e spirituale. Sulla parete di sinistra, un ragazzo nero si inchina, reverente, all’immagine, mentre alle sue spalle brilla la luce drammatica della torre in fiamme. Su quella di destra, un satiro suona invece il flauto, incantando e accompagnando le anime dei defunti nel loro tortuoso tragitto verso l’aldilà. Una raffigurazione potente e drammatica, che ci parla delle tragedie di oggi e di quelle di ieri, dell’ingiustizia sociale e del rapporto tra identità e integrazione, ma anche di spiritualità e di mistero. Il mistero inconoscibile della vita e del suo destino.

“In questi anni, ogni volta che passavo davanti alla Grenfell Tower, distoglievo lo sguardo”, ha raccontato l’artista. “A un certo punto ho capito che non potevo più permettermi questo lusso”. Così, ha cominciato a studiare. A disegnare. A immaginare quale sarebbe potuto essere il suo tributo a una giovane artista estremamente promettente, morta nel fiore degli anni, quando il suo lavoro cominciava appena a farsi conoscere nel mondo. E, nello stesso tempo, un omaggio a tutti gli altri, ai poveri morti di quella tragica ferita aperta nel centro di Londra, e nel centro del cuore di tutte le città del mondo che ancora permettono, per leggerezza e per cupidigia, che drammi come questi accadano, strappando alla vita persone nel fiore dei loro anni più belli.

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