Un Cenacolo sempre più aperto, sempre più frequentato. Se già oggi è visitato da più di 400.000 visitatori l’anno, dal 2024 sarà sempre più disponibile alle visite. Da quest’anno, infatti, avrà la possibilità di accogliere un numero maggiore di visitatori, passando dagli attuali 430.000 a oltre 502.000. La novità è stata annunciata dalla Direzione regionale Musei Lombardia e dal Museo del Cenacolo Vinciano (le informazioni riguardo all’acquisto dei biglietti d’ingresso sono disponibili sul sito www.cenacolovinciano.org). Nel 2023, ogni giorno 1.400 persone hanno visitato il Cenacolo. Già dai primi di gennaio, però, il numero di visitatori ammessi è aumentato, con la possibilità di accoglierne 1510 al giorno. A partire dal primo marzo, il numero giornaliero di visitatori potrà raggiungere un totale di 1620.
Un successo meritato, e un’ottima gestione dei visitatori per uno dei grandi capolavori milanesi, che, nonostante le periodiche lamentazioni sul suo stato di conservazione (oggi per fortuna stabilizzato con l’eccellente restauro eseguito da Pinin Brambilla tra il 1977 e il 1999), è tutt’ora uno dei più splendenti gioielli dell’arte lombarda. In occasione di questa novità, siamo andati a scovare curiosità, aneddoti e polemiche di cui è costellata la storia del capolavoro leonardesco.
La testa di Gesù? Nata “imperfetta”
Il Cenacolo sembra da sempre – quasi da quando venne realizzato da Leonardo, tra il 1495 e il 1498 – sempre sul punto di scomparire, gravato da continue macchie di umidità, dal pericolo di corrosione, di erosione dei colori e della superficie pittorica.
Una delle particolarità? La testa del Cristo, era già, secondo Vasari, “nata imperfetta”: Parlando di Leonardo, l’autore delle Vite scrive infatti: “Fece ancora in Milano, ne’ frati di San Domenico a Santa Maria delle Grazie, un Cenacolo, cosa bellissima e maravigliosa, ed alle teste degli apostoli diede tanta maestà e bellezza che quella del Cristo lasciò imperfetta non pensando poterle dare quella divinità celeste che all’immagine di Cristo si richiede. La quale opera, rimanendo così per finita, è stata dai milanesi tenuta nel continuo in grandissima venerazione e dagli altri forestieri ancora”.
Sempre sul punto di scomparire
Amatissima dunque, fin dall’inizio, ma anche “imperfetta”. E sempre in pericolo per le cattive condizioni in cui era tenuto il refettorio. È infatti documentato fin da poche decine d’anni dopo la sua realizzazione il cattivo stato di conservazione dell’affresco.
Si racconta che nel 1515 il re Francesco I, trovandosi a Milano, espresse, “secondo afferma la tradizione” (così riporta Luca Beltrami, architetto, intellettuale, patriota, nonché deputato e senatore del Regno, all’inizio del 1900), il desiderio di staccare la parete dove sta la cena, e di trasportarla in Francia. Ma Paolo Giovio, nella sua Leonardi Vincii vita, del 1526, dice invece che la volontà di staccarla dal muro e trasferirla in Francia non fu di Francesco I di Valois (che regnò dal 1515 al 1547), ma del suo predecessore (nonché suocero), Luigi XII.
Fatto sta che fin dall’antichità è testimoniato il cattivo stato di conservazione dell’affresco: il canonico Antonio de Beatis, segretario del cardinal Luigi d’Aragona, nel 1517, accompagnando il cardinale nel viaggio attraverso l’Europa centrosettentrionale, visita il Cenacolo e riferisce che “già incomincia ad guastarse”. E anche Giovan Paolo Lomazzo, che di Leonardo è uno dei primi esegeti, parla della pittura già “rovinata tutta”.
“Non si riconoscevano neppure le figure”
Fin dalla fine del 1400 sono conosciute copie dell’affresco, e, almeno a partire dal 1700, sono noti tentativi di restaurarlo. Molte le notizie di crescente degrado, che fanno impallidire i visitatori di oggi, abituati alla “versione” attuale, mirabilmente restaurata e restituita ai colori originari. Pietro Marani, uno dei massimi esperti di Leonardo, ha ricostruito, proprio in occasione del restauro attuale, compiuto nel 1999 (Leonardo. L’ultima Cena, Milano, Electa, 1999), le diverse testimonianze sullo stato di degrado del Cenacolo: ecco Don Ambrogio Mazenta, intorno al 1635: “È guasto questo pretioso ideale, per esser stato pinto a olio sopra humido muro”; ecco Francesco Scannelli, che, “partì di Romagna per godere una tal’opera”, trovandolo “mezo guasto, benché bellissimo”, malgrado “un secolo prima non era che in parte rovinata”, e annota di non riuscire neppure più a distinguere le singole figure.
Una “certa muffa” che assomiglia “all’imbiancatura dei muri”
È la volta poi del cardinale Federico Borromeo, che, annota il Beltrami, “nonostante il proposito di affrontare qualunque opera che potesse sottrarre il dipinto a una maggiore rovina, dovette limitarsi a farne eseguire una copia, la più fedele che fosse possibile”. “Un’altra copia”, scrive sempre il Beltrami, “fu eseguita da padre Gallarati, nella seconda metà del secolo XVIII per ordine di Vittorio Amedeo III, il quale Gallarati, secondo quanto riferisce il padre Domenico Pino, ultimo priore del convento delle Grazie, notò che “in certe giornate in cui dominava la scirocco vedevasi stesa su essa pittura la umidità, come se vi fosse piovviginato sopra, onde riconoscere non vi si potevano distintamente i tratteggiamenti e le ultime differenze delle pitture”.
A proposito dell’umidità che si raccoglieva sulla parete del dipinto, annota ancora il priore del convento, che non era neppure utile “ricoprirlo colle cortine” che ai tempi si chiudevano per cercare appunto di ripararlo dall’umidità, perché, “se tengosi chiuse, nei tempi piovosi dalla parte destra del Salvatore in ispecie vi si raccoglie di sotto l’umidità, e la pittura, se non se le dà aria, si copre di una sottilissima muffa bianchiccia… per lo che l’espediente migliore egli è di lasciarlo scoperto: tranne quel poco di tempo che scopasi il refettorio”.
Un altro domenicano, il Padre Vincenzo M. Monti, verso la stessa epoca, scriveva invece che l’affresco era ricoperto “da una certa muffa, o vogliam dire certo fioretto bianchiccio, il quale col lungo succedere degli anni tanto si accresce, che quasi rassomiglia all’imbiancatura del muri”.
Primi restauri
Ma è solo nei primi decenni del 1700 che, annota Marani, “i milanesi hanno un sussulto d’orgoglio”. E comincia allora la lunga e dibattutissima questione dei restauri. A far scattare nei milanesi “l’orgoglio” sono le osservazioni, pubblicate entrambe nel 1722, sulle condizioni dell’affresco, rispettivamente di François Maximilien Misson e di Jonathan jr. Richardson. “È infatti in conseguenza delle osservazioni di costoro sulle condizioni della pittura e della stampa dei loro volumi, in francese quello del Misson del 1722 e in inglese quello del Richardson, nello stesso 1722 (una successiva edizione in francese di quest’ultimo testo apparirà ancora nel 1728), che si ha il primo intervento “di restauro” documentato sul dipinto”.
Il primo a mettervi mano fu Michelangelo Bellotti, che sosteneva di possedere “un segreto per aiutare a cavar fuori l’eclissata pittura”. Tuttavia, nonostante le reazioni positive iniziali, il restauro di Bellotti, secondo Serviliano Latuada nel 1737, sembrava più un completo rifacimento pittorico che un ripristino dell’originale dipinto.
Circa cinquant’anni dopo, il governo austriaco si interessò nuovamente al Cenacolo a causa del fallimento del precedente restauro. Il Ministro Plenipotenziario d’Austria, conte Carlo Firmian, intervenne direttamente presso il padre priore del convento delle Grazie, Giacinto Cattaneo, proponendo l’intervento del pittore Mazza per “riaccomodare” il dipinto.
Tuttavia, l’intervento di Mazza si rivelò un ulteriore lavoro di rifacimento pittorico. Per rimuovere le ridipinture precedenti di Bellotti, Mazza fu costretto a raschiare la superficie pittorica del Cenacolo per poi ridipingerlo. L’opera di Mazza venne interrotta dopo le critiche di Barry, il quale, osservando il lavoro sui ponteggi, scoprì l’operato di Mazza e il suo intento di ripassare completamente il dipinto, definendo il nuovo lavoro come uno “sbiadito colore”.
Napoleone firmò l’ordine di sgomberare il refettorio montando a cavallo
È Giuseppe Bossi, artista e intellettuale del primo Ottocento, tra i protagonisti del neoclassicismo milanese, a ricordare come fu lo stesso Napoleone, nel 1796, a ordinare di sgomberare il refettorio per non rovinare ulteriormente l’affresco di Leonardo. “Egli fu visto firmare l’ordine sul ginocchio, prima di montare a cavallo”, annota il Beltrami. Ma l’ordine non fu rispettato.
“Durante il periodo tumultuario della Repubblica Cisalpina, quel luogo insigne fu adibito prima a scuderie, poi a fienile, e l’inondazione che funestò Milano nel 1800, come quella avvenuta mentre Leonardo lavorava alla Cena, aggravò la condizione delle cose”, riporta una cronaca del primo Novecento.
E da quel momento si moltiplicarono i tentativi di restauro, quasi mai, tuttavia, veramente soddisfacenti, quando non addirittura dannosi. Si alternarono i tentativi dell’Appiani, di Stefano Barezzi fra il 1819 e il 1821, e nuovamente altri tentativi tra il 1853 e il 1855.
Beltrami: d’Annunzio, che esagerato!
Fu a seguito di ulteriori lamentazioni per “la morte di un capolavoro” (così d’Annunzio, che intervenne con un’ode pubblicata su “L’illustrazione italiana” nel 1901, in cui lamentava la “ruina irreparabile” dell’affresco di Leonardo ad opera del tempo, degli agenti atmosferici e della scarsa manutenzione) che nuovamente si decise di rimettere mano al restauro del Cenacolo, che fu eseguito tra il 1903 e il 1908 da Luigi Cavenaghi.
In quell’inizio di secolo, Beltrami, scagliandosi contro d’Annunzio, considerato un catastrofista, lo bollò di esagerazione, ricostruendo gli sforzi fatti in ogni epoca per salvarlo. “Beltrami”, riporta una cronaca dell’epoca, “conclude dicendo che l’annunciare oggi “la morte del capolavoro” non risponde alla realtà delle circostanze, perché queste non sono diverse da quelle che per quattro secoli hanno tormentato la creazione vinciana. Sarebbe invece il caso di dire “l’agonia del capolavoro” se la stessa condizione cronica del dipinto non rendesse impropria anche questa espressione”.
La “rovina” del Cenacolo? È la sua apoteosi
Gli faceva eco, negli stessi anni, sulla rivista “Il Marzocco”, lo storico dell’arte Angelo Conti che, con taglio tardoromantico, scriveva: “Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far comprendere la vita meravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d’ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finché rimarrà un sol frammento della parete prodigiosa, finché un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia custodiranno un riflesso anche lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi più potente che se il tempo e gli uomini l’avessero rispettata in tutte le sue parti mortali”.
Dalla gomma per cancellare a Warhol e Basquiat
Ma per tutto il corso dei secoli XIX e XX, il mito di Leonardo come “nume tutelare” dell’arte, itaiana e non solo, crebbe a dismisura, e con lui quello del Cenacolo: è il 1920 quando Pirelli sceglie il suo volto pubblicizzare le sue gomme per cancellare, come fosse un moderno testimonial: un suo ritratto disegnato a sanguigna, fissato a un foglio con le puntine da disegno, ce lo mostra mentre tiene in man la gomma Pirelli, “La miglior gomma per disegno”, come recita lo slogan.
Anche la Pop Art fu stregata dal mito del Cenacolo. Nel 1987, presso il Palazzo delle Stelline a Milano, fu inaugurata la mostra “Warhol. Il Cenacolo”, dove ventidue tele dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, riprodotte dal padre della Pop Art, erano esposte proprio a poche decine di metri dall’originale, dall’altra parte della strada.
Ma non fu la sola volta in cui Warhol si cimentò con questo soggetto. L’anno prima, nel 1986, aveva realizzato un’installazione assieme a Jean Michel Basquiat. Il titolo era Ten Punching Bags (Last Supper), e consisteva in dieci sacchi da boxe con il volto del Cristo dell’Ultima Cena ripetutamente riprodotto e sovrapposto da Basquiat con la parola “judge”, nello stile distintivo dell’artista. Un’opera-shock, che da una parte rafforzava il mito di Leonardo e del Cenacolo, e dall’altra lo prendeva di mira, invitando a colpirlo.
Nel 2019, invece, è il critico Demetrio Paparoni a ritornare sull’attualità del Cenacolo con la bellissima mostra “L’ultima cena dopo Leonardo”, allestita a Milano sempre presso la Fondazione Stelline, che ripercorre la persistenza del suo mito attraverso il lavoro di sei celebri artisti contemporanei: Anish Kapoor, Roberto Longo, Masbedo, Nicola Samorì, Wang Guangyi, Yue Minjun. Omaggi, decostruzioni, contaminazioni, rielaborazioni, che dimostrano come il Cenacolo continui a contaminare l’immaginario artistico contemporaneo. Significativo, tra le altre opere, anche il video dei Masbedo, che focalizzano la loro attenzione sulle mani di Pinin Brambilla Barcilon, la restauratrice cui si deve lo staordinario restauro che oggi ci ha restituito il Cenacolo “forse come non era stato possibile vederlo dai primi decenni del Cinquecento”, come scrive Pietro Marani.
Dopo i diversi restauri tentati nel corso del Novecento (nel 1924, poi nel 1947-49, dopo la bomba che colpì il refettorio, che fu terminato solo nel 1953), il restauro attuale ha riportato i colori alla loro vividezza originaria, mentre le figure saltano fuori plasticamente, grazie al ritrovato chiaroscuro leonardesco. Un piccolo miracolo, di cui oggi un sempre maggior numero di visitatori non smette di godere.