Boccioni ante litteram. Alla Magnani Rocca le sue opere pre-futuriste.

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A Mamiano di Traversetolo a pochi chilometri da Parma, nella villa dei capolavori del critico e abile collezionista Luigi Magnani è dedicata una mostra a Umberto Boccioni: Boccioni. Prima del futurismo. L’irresistibile elemento di novità introdotto nel presentare l’artista, meglio noto dai più per il suo percorso futurista, è l’incentrarsi sui suoi risvolti pre futuristi. Negli anni, cioè, di sperimentazione inquieta, errabonda, interiore.

Rimarrà deluso lo spettatore, che attende di vedere gli esiti compiuti del Boccioni futurista: Forme uniche della continuità dello spazio (l’originale esposta a San Paolo del Brasile, al Museo di Arte Contemporanea) o La città che sale del 1912 o Carica di lancieri del 1915. La mostra, curata da Virginia Baradel, Niccolò d’Agati, Francesco Parisi e Stefano Roffi presenta un Boccioni poliedrico: un insieme di circa duecento opere di un giovane artista alla ricerca di una modalità espressiva propria e innovativa. Protagonista è il primo decennio del Novecento, decennio inquieto e fervente che lo accompagna attraverso la varietà delle sperimentazioni artistiche e culturali.

È indagata la formazione iniziale di Boccioni dal 1899 sino agli esiti immediatamente prossimi alla firma del Manifesto dei pittori futuristi nel febbraio del 1910. L’esposizione è ospitata al piano terra della maestosa residenza e dialoga, tramite echi e rimandi spaziali, con la collezione permanente della Fondazione Magnani Rocca, contenente capolavori di inestimabile valore. Tra le sale della villa, camminando sul pavimento in legno pregiato, si attraversano straordinari capolavori della storia dell’arte: opere di Filippo Lippi, Dürer, Van Dyck, Goya, così come Monet, Cézanne, Renoir sino ai contemporanei di Magnani: Morandi (di cui egli era, oltre che collezionista, un grande amico) Burri, De Pisis, Guttuso. Percorrendo parte delle grandi sale dall’alto soffitto del piano terra, dunque, si arriva all’inizio del percorso rivolto a Boccioni.

L’apertura è segnata dalle illustrazioni, ambito spesso considerato secondario della sua produzione, «frutto di un movente pratico ed economico più che artistico» che però testimonia un momento significativo del dialogo costante di Boccioni con i modelli più noti del panorama d’arti grafiche e illustrative dell’epoca. Dal 1899 l’artista cerca lavoro presso redazioni giornalistiche locali, avvicinandosi al mondo dell’illustrazione. È a Roma che l’artista studia presso il maestro Stolz, accostandosi ai modelli della grafica romana pregni di suggestioni viennesi, figure connotate da un profondo linearismo da «forzature linearistiche» «sintetizzazioni cromatiche e le insistenze decorative» come scrive Niccolò D’Agati.

L’illustrazione diviene, in Umberto Boccioni, un campo di sperimentazioni al pari della pittura: le sintesi formali, le rese espressive, caricaturali, segnano ancora una volta una volontà boccioniana di accostarsi al linguaggio della modernità, tramite talvolta la collaborazione con riviste di largo consumo come Varietas o Illustrazione italiana. Il folklore romano, la naturalità delle famiglie olandesi, le scene di caccia di ambito anglosassone risentono di un «milieu culturale specifico spiccatamente europeo» oltre che dalla grafica italiana, come è evidente dalla copertina dell’Avanti della domenica.

L’illustrazione che inaugura il percorso sull’artista, ritorna nell’ultima parte dell’esposizione sancendo l’evoluzione formale del disegno romano in una maturazione segnica frutto delle suggestioni beardsleiane e dei grandi illustratori italiani come Dudovich, Bompard e Metlicovitz. Lasciandoci alle spalle la colorata e allegra illustrazione romana, connotata di cartoline con ciociari, famiglie olandesi, cacciatori, fantini e scene della quotidianità (Ciociaretta 1904; Famiglie olandesi, 1904; Chasse au remare, 1903) entriamo nel cuore dell’esposizione. L’intera mostra è tripartita nei luoghi che hanno segnato la vita, oltre che la produzione boccioniana: Roma, Padova e Venezia e infine Milano, curate rispettivamente da Francesco Parisi, Virginia Baradel e Niccolò D’Agati. La ricerca tumultuosa di un’espressione artistica propria lo conduce, sempre a Roma, a frequentare le scuole di disegno pittorico e di nudo e successivamente lo studio di Giacomo Balla.

Proprio Balla, giunto a Roma da Torino, nel 1895, iniziando ad avvicinarsi, certamente influenzato dalle teorie sulla divisione del colore e sulla luce di Michael Eugène Chevreul, avvicina Boccioni allo studio della purezza dei colori di nuovo impianto divisionista, che si distacca dalla tessitura cromatica dei primi divisionisti. L’elemento innovativo della mostra in questione è il dialogo serrato e costante tra le opere di Boccioni e quelle delle maggiori personalità artistiche che con lui hanno vissuto gli influssi brucianti dei primi anni romani: i paesaggi bucolici di Giulio Aristide Sartorio (Primavera latina, 1899 ca.) le opere di Balla (Primo ritratto di Elisa che cuce 1898, Periferia romana, 1904 ca; Tramonto con due covani, 1905), di Gino Severini, Guido Calori, Giovanni Prini. Frutto di queste trame intellettuali sono Campagna romana o meriggio del 1903; Ritratto di giovane, 1905 ca; Ritratto della signora Virginia 1905; Donna che cuce 1906, in cui l’umanità e la natura, fermate in un attimo di contemplazione, sono costruite con svelte pennellate cromatiche e un sapiente utilizzo della luce.

La sua esperienza artistica ed esistenziale procede nei territori veneziani, egli soggiorna a Venezia e Padova durante il 1907. L’allestimento di questo periodo mira a evidenziare non solo l’evoluzione pittorica dell’artista, ma la sua distanza rispetto a quanto egli scorge a Venezia. La città lagunare, infatti, ancora sotto i condizionamenti degli accademici Ettore Tito e Guglielmo Ciardi non entusiasma Boccioni, a parte pochi tra cui De Maria, Favai e i pittori del simbolismo notturno del circolo artistico di Marius Pictor. «Del resto un allievo di Balla, orientato a un divisionismo d’impronta realista dove è il filamento di colore a porsi come moltiplicatore della luce, non poteva apprezzare la sontuosa pittura veneziana fatta di pasta, di tocco e di impalcata seduzione cromatica volta, come scrive Pica “al bisogno di piacere”», afferma Virginia Baradel.

Sono opere di questi anni: Paesaggio padovano 1904; Chiostro 1904; La madre, 1906; Ritratto del dottor Gopcevich, 1906; Canal Grande, 1907. I mesi veneziani, più che per la pittura di per sé, gli servono per lo studio. Le “marine” veneziane, come le definisce nei suoi diari sono prove di applicabilità del divisionismo su paesaggi differenti da quelli campagnoli, agresti; studi sulla rifrazione della luce sui canali veneziani che sembrano consolidare, come scrive Baradel, la sua condotta divisionista non priva di un «sentore vedutista».

L’ultimo momento della mostra sul celebre artista si focalizza su Milano, dopo le esperienze a Roma, Venezia e i brevi viaggi  in Russia e a Parigi, Boccioni risente della cultura milanese di inizio secolo, in particolare i maestri del divisionismo locale: Longoni, Morbelli, Segantini, Previati. L’incontro con queste personalità consente a Boccioni il superamento delle idee romane. Nonostante non abbandoni l’influsso di Balla, mira al raggiungimento di un’arte ideale che sia un misto tra vero e idea, tra rappresentazione e riflessione. Capolavori di questa maturazione sono Mia madre, 1907; Sorella intenta a cucire 1907; Il romanzo della cucitrice, 1908. Sono quadri in cui la luce, il colore, la superficie sembrano ardere in una visione nuova che tenti di trasformare la pittura in espressione pura della creazione. I soggetti ritratti, spesso persone care al pittore, sono fermate in un momento finalizzato a metterne a nudo le anime. Secondo la consapevolezza di cui Boccioni scrive sui suoi diari per cui «ogni viso come la sua anima dovrebbe avere il suo incendio e la sua febbre».

Boccioni: Prima del futurismo Opere 1902-1910 è un complesso e meditato crocevia di artisti, di filosofie, di ambienti che hanno condizionato la poetica di uno dei più grandi artisti del Novecento e mira a riscattarne la complessità invitando i più a non ridurre l’artista a un movimento culturale specifico, ma osservarlo nella sua vitale poliedricità esplorandone la continua e fervente crescita interiore.

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