Arte Fiera 2024, zero paccottiglia e molte opere. Sono proprio queste le fiere che ci piacciono

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Questa volta il bastone appoggiato al muro non l’abbiamo trovato. Abbiamo trovato, è vero, una lavatrice sotto ai portici, così ben messa, ma così ben messa (anzi installata, pardòn), che pareva proprio un object trouvé di marca post-duchampiana. E invece no, il cartello “Ritiro Hera” appoggiato sopra ne denunciava fatalmente la sua natura vulgaris e accidentale.

Pazienza, ce ne siamo fatti una ragione (a proposito, il riferimento al ”bastone appoggiato al muro” è, per chi non lo sapesse, un furto intellettuale bell’e buono al mio amico Giuseppe Veneziano, grande pittore neopop che più neopop non si può, che ad ogni manifestazione fieristica mondiale riesce a fotografare un’immancabile bastone appoggiato al muro, residuo oggettuale-concettuale di quella massa di paccottiglia per l’appunto post-duchampiana che da mezzo secolo affolla fiere, biennali, mostre chic e ogni genere di manifestazioni che contano nel mondo, Italia compresa).

Diego Gualandris (ADA).

Niente bastoni, dunque, né mucchi di calzini sporchi (questa, invece, l’ho rubata a un altro caro amico, Angelo Crespi, oggi felicemente nominato neodirettore della Pinacoteca di Brera, che nel suo saggio del 2014 Ars attack. Il bluff del contemporaneo edito da Johan & Levi, teorizzava il dilagare, sulla scia dell’ottimo Jean Clair col suo De Immundo, di un’estetica del calzino sporco nel contemporaneo avanzato, a partire proprio da un’installazione vista negli anni precedenti ad Artissima: installazione che, per inciso, ricordo ahimè anch’io, ma chi ne fosse l’autore, oggi probabilmente non lo ricordano neppure i suoi parenti più stretti, giacché il destino delle brutte opere – se mai quella poteva definirsi opera –, è di rimanere infisse nella memoria come metafore di periodi infelici, consegnando invece all’eterno oblio i nomi dei loro autori).

Daniele Galliano (Federico Rui).

Niente paccottiglia, dunque, e niente sciocchezzai del contemporaneo avanzato, questa volta. Stiamo parlando, se non l’avete capito, della recentissima Arte Fiera di Bologna, che nella sua in fondo linearità e semplicità di base (padiglioni ben separati tra moderno e contemporaneo, stand spaziosi e con belle opere degnamente esposte ed ordinate, gran massa di bei quadri e di ottime sculture), seppure senza rivelare, è vero, come hanno già sottolineato dal nostro magazine sia Ivan Quaroni che Emanuele Beluffi, grandi novità (nessuna opera davvero eclatante, nessuna scoperta sensazionale, nessuna grande installazione mozzafiato, come se ne vedono ogni anno ad Art Basel nella sezione Unlimited), è però indubbio che riempisse gli occhi, e dunque anche il cuore, del visitatore.

Una bella fiera, dunque, nell’insieme – di quelle che piacciono a noi, oseremmo dire –, perché tornava alla prevalenza della visione anziché a quella della complicità intellettualistica, alla cultura del guardare anziché a quella della strizzata d’occhio al fruitore avvertito, alla felicità del mestiere anziché a quella della trovata “interessante”, che però nulla dice e nulla lascia nel cuore dei visitatori, al di là di quell’interessante di cui si riempiono solitamente la bocca i fruitori che, sapendo poco, vedendo ancora meno e non capendo praticamente nulla, ma volendo comunque (o forse proprio per questo) essere accettati nei salotti buoni del sistema, si fingono interessati a cose che nella loro vita “normale” non degnerebbero neppure di uno sguardo.

Davide Coltro (FerrarinArte).

Per intenderci: la lavatrice di cui sopra, che a noi, domeniddio, ha strappato una divertita esclamazione di sorpresa nel trovarla così, di notte, abbandonata in mezzo ai portici come una povera vecchia installazione d’altri tempi (quando ancora queste cose andavano di moda, poveri noi!), e che loro, invece, i fautori dell’arte “interessante”, scavalcherebbero un po’ inorriditi (e che dire poi di quell’altra, ehm, installazione spontanea – un sifone di un wc! –, che abbiamo trovato invece qualche mese fa a Milano, ai margini di un parco pubblico, che qualche burlone, o forse un fottutissimo genio, aveva impreziosito con un bel “R. Mutt” vergato con forte e vigorosa scritta nera su di un lato, a ricordo dei fasti duchampiani oggi fatalmente in decadenza?); la lavatrice di cui sopra, dicevamo, ha oggi il sapore di un’epifania involontaria, è il piccolo, malinconico simbolo di un’epoca forse definitivamente, e finalmente, tramontata.

Chiara Calore (Bonelli).

Ebbene, ad Arte Fiera no: niente lavatrici, niente mucchi di calzini, niente sifoni di water. Molti quadri, invece, molte sculture, insomma molte opere da vedere e giudicare non con un sussiegoso “interessante”, ma con gli occhi, coi sensi, con lo sguardo. Nomi? Elenchi? A pacchi, volendo, anzi a palanche. Come non citare la commovente installazione delle sculture di Girolamo Ciulla, nello stand della Galleria Forni, intenso e delicatissimo scultore mancato da pochissimo nella sua Pietrasanta? E il grande quadro Mattanza di Fulvio Di Piazza, nello stand di Bonelli, dove la facevano da padrone anche i quadri della giovane e bravissima Chiara Calore? E quelli, intensi e drammatici come sempre, di Romina Bassu da Studio Sales?

Girolamo Ciulla (Forni).

Di pittori bravi, se ne trovavano, va detto, ad ogni angolo (o ad ogni stand), a dispetto del mantra autoflagellante che vorrebbe la pittura italiana ininfluente nel mondo perché non all’altezza di quella internazionale. Se è ininfluente (e ahinoi lo è), è per tanti fattori, la cui colpa, però, non è certo imputabile agli artisti, ma semmai ai cosiddetti “operatori del sistema”, da sempre esterofili per conformismo e piaggeria. Ma la ricerca in Italia è viva, e vanta ottimi nomi e altrettanti ottimi percorsi.

Francesco De Grandi (Rizzuto).

Molte erano le “vecchie glorie”, se così si può dire: Daniele Galliano, con un bellissimo stand personale da Federico Rui; Agostino Arrivabene, con un’ampia selezione di lavori da Primo Marella; Marco Cingolani, con vecchi quadri della serie delle interviste degli anni Novanta, alla Galleria Gaburro; Francesco De Grandi coi suoi grandi quadri di natura, drammatici e barocchi; Ozmo, da Studio Raffaelli, e poi Cristiano Pintaldi (Muciaccia), solo per citarne alcuni. Tra le opere tecnologiche, imperdibili quelle di Davide Coltro, che da anni persegue una sua coerente ricerca che attraversa il figurativo e l’astrazione; tra i nuovi talenti, molti gli artisti a cui prestare attenzione: senz’altro Iva Lulashi, alla Prometeo Gallery; Thomas Braida, da Monitor; Pietro Moretti, da Doris Ghetta; Diego Gualandris, da ADA; Alice Faloretti, da Francesca Antonini.

Romina Bassu, Second Skin (studio Sales).

Un unico appunto, per quel che mi riguarda: di tutto questo, nei premi assegnati nel corso di questa edizione di Arte Fiera, ho trovato in fondo ben poco. Forse, benché il mondo dell’arte stia cambiando rapidamente volto, è il sistema che, sotto sotto, continua a far quadrato. Ma, piano piano, si adeguerà anche lui. Il tempo delle ideuzze, dei bastoni appoggiati ai muri e dei calzini sporchi è definitivamente tramontato. Largo alle opere, ai quadri, alle sculture, finalmente.

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