La sofferenza degli innocenti ci sconvolge. Sconvolge vedere le vite dei più piccoli, vittime dei grandi conflitti, stravolte per sempre. Sconvolge vedere che a soffrire è sempre chi non se lo merita affatto. Genitori e figli, madri e padri, famiglie, popoli interi distrutti dalla cruda realtà del mondo. Che colpa hanno? Cosa hanno fatto per meritarsi tutto questo? Per trovarsi a vivere una vita di stenti, in cui ogni giorno non si è sicuri di arrivare a quello seguente? Una vita in cui si rischia di morire a causa della fame o di un bombardamento, in cui ormai non c’è più nulla da perdere, perché quella che una volta chiamavi casa non esiste più; una vita in cui non puoi fermarti a riposare, nemmeno per bere un po’ d’acqua, perché sei costantemente in pericolo.
Davanti a tutto questo, viene da chiedersi se una vita così sia degna di essere vissuta, se ne valga veramente la pena. La risposta è proprio in queste fotografie, testimoni silenziose di resilienza e resistenza, ma soprattutto di coraggio. Sono immagini forti e incisive in cui la vita emerge prepotente nelle avversità, si fa spazio con le unghie e con i denti, anche quando lo spazio in realtà non c’è affatto.

Lo vediamo negli occhi di Mahmoud Ajjour, nove anni, che a Gaza ha perso entrambe le braccia, la sua casa e la spensieratezza che dovrebbero avere tutti i bambini della sua età. Eppure il suo volto è composto, esprime quella dignità silenziosa che incontriamo di fronte a certi busti marmorei dei grandi personaggi antichi. Lo sguardo è rivolto altrove, oltre la sofferenza, fisica e psicologica, che porta con sé ogni giorno. Un anno e mezzo dopo, Mahmoud sta imparando a usare i piedi per quelle piccole azioni quotidiane, come aprire una porta o scrivere qualcosa, a cui normalmente non facciamo caso.
A poco più di duemila chilometri di distanza, distesa sul suo nuovo letto, c’è Anhelina, sei anni, costretta a scappare dal suo villaggio insieme alla famiglia per sfuggire all’invasione russa. Il corpo bambino giace immobile, sdraiato su una morbida coperta; anche il suo sguardo sembra assente, troppo pacato per la sua età. La guerra è ormai lontana, eppure gli spari e i boati delle esplosioni continuano ad echeggiare nella sua testa, lasciando profonde cicatrici psicologiche. Nei suoi pensieri muti si leggono i segni del trauma vissuto, che spesso si manifesta sotto forma di attacchi di panico.
La fuga da guerre e conflitti è sempre stata una costante nella storia dell’uomo, ma non si può dire lo stesso dei rifugiati climatici. Quando le bombe sono d’acqua e il campo di battaglia rischia di scomparire, spesso non c’è altro da fare se non andare via. Di fronte a tempeste, alluvioni, siccità, catastrofi naturali come quelle che stanno vivendo il Brasile e le Filippine, sono in molti a decidere di lasciare questi paesi per iniziare una nuova vita altrove.

Lo stesso destino spetta a coloro che, vittime di instabilità politica, corruzione, dittature o repressione del dissenso, intraprendono il viaggio della speranza verso un futuro migliore. Oltre cento nazionalità diverse attraversano la giungla, percorrono fiumi e sentieri di montagna con le infradito e affrontano le aggressioni violente dei banditi. Venezuelani in fuga dalla povertà e dal regime autoritario, afghani in cerca di riparo dalla violenza dei talebani, cinesi che scappano dalle rigide politiche del paese. E ancora guatemaltechi, ecuadoriani, haitiani e tanti altri migranti sognano una vita diversa negli Stati Uniti, fuorviati dall’ideale americano.

Quando si combatte per vivere, la forza e il coraggio di lottare sembrano inesauribili, e nessun ostacolo è grande abbastanza da poterti fermare. I segnali più luminosi, forse profetici, provengono dall’Africa, dove la speranza non è mai morta e il sogno di un futuro diverso è ancora presente, nascosto dietro la determinazione di un atleta disabile e camuffato dagli spari tradizionali che annunciano un matrimonio.
Tutti gli scatti rivelano l’impressionante capacità dell’essere umano di adattarsi ad ogni situazione, nonostante tutto. Guerre, cambiamenti climatici, migrazioni, storie di popoli in rivolta, di catastrofi incontrollabili, di rovina, di ambienti, case e famiglie distrutti. Quelle storie marginali, relegate nelle zone più remote del pianeta, lontano dalle nostre vite di privilegiati europei, oggi riguardano ognuno di noi, entrano nel nostro intimo più profondo e colpiscono dritte al cuore.

Ora più che mai, lontani o vicini, possiamo condividere ogni singola sofferenza con l’intero mondo, congiungendo le nostre vite in un unico destino. Perché è proprio nella fragilità che si scoprono i valori di una comunità, ormai mondiale, che vive e sperimenta realtà sovrapponibili, anche se in diversi luoghi del mondo.
Davanti allo spettacolo che è il nostro pianeta, coloro che sono passati alla storia sotto il nome di ultimi ora occupano i posti in prima fila: se ci sarà o meno il lieto fine spetta a noi deciderlo.
Quando gli ultimi salgono alla ribalta è solo sofferenza.