Da quasi trent’anni, il regista di Boogie Nights e Il petroliere scandaglia l’anima dell’America come un geologo politico; trivella i suoi giacimenti morali, ne misura la pressione e ne estrae il combustibile più instabile: l’umanità. Con Una battaglia dopo l’altra, torna a far vibrare il suo sismografo sull’epicentro del presente. Fin dai titoli, l’eco di Gil Scott-Heron (The Revolution Will Not Be Televised) agisce come una chiave segreta. La rivoluzione, qui, non avviene sullo schermo ma nel suo stesso linguaggio. Paul Thomas Anderson mette in scena la collisione fra due estremi: la ferocia restauratrice dei suprematisti e l’idealismo scomposto di una rivoluzione in frantumi.
Il film si estende per oltre sedici anni di storia americana, compressi e dilatati in centosessantadue minuti di montaggio febbrile, seguendo le traiettorie incrociate di due pulsioni opposte: l’ordine e la rivolta. Da un lato Steven J. Lockjaw, ufficiale suprematista (uno Sean Penn monumentale nella sua forza disciplinata), che incarna un potere bianco virile e armato di dogma. Dall’altro Pat Calhoun e Perfidia Beverly Hills, Leonardo DiCaprio e Teyana Taylor, amanti e compagni nella cellula rivoluzionaria French 75, residuo di un marxismo degradato a teatro di guerriglia e desiderio. In mezzo, la Storia: la loro figlia Willa, incarnazione di un futuro che non sa più da chi discendere.

Sean Penn presta corpo e follia al capitano Lockjaw, incarnazione del fanatismo travestito da patriottismo. Leonardo DiCaprio, straordinario nella sua auto-parodia tragica, è un ex rivoluzionario svuotato, un uomo che ha smarrito il proprio credo ma non la nostalgia della lotta. Fra loro, una donna: Perfidia Beverly Hills, figura biblica e pop, corpo del desiderio e detonatore del disastro. E poi la figlia, Willa, che eredita un mondo di colpe come si eredita un debito antico.
Quello di Anderson è un racconto di genealogie spezzate, e la famiglia è al tempo stesso rifugio e gabbia: non c’è amore che non sia contaminato da dominio, né libertà che non produca un nuovo carcere. Una battaglia dopo l’altra amplifica questi temi fino a trasformarli in metafora del corpo politico. L’America diventa così la grande madre cannibale: genera i suoi ribelli solo per divorarli, promette salvezza mentre pianifica l’oblio.
Anderson costruisce il film come un mosaico di generi: western, thriller politico, commedia grottesca, dramma familiare, che si incastrano in un movimento continuo. È un’opera che sembra respirare: ansima, si ferma, riparte, cambia tono e pelle come un organismo vivente. Ogni scena è una battaglia fra stili, proprio come l’America è una battaglia fra ideali inconciliabili.
Non c’è nulla di più contemporaneo di questo racconto che parla del presente senza nominarlo. Il regista, ancora una volta, trova nel passato (e nel romanzo di Thomas Pynchon, Vineland) una lente per osservare il nostro tempo.

Leonardo DiCaprio, nel ruolo di Ghetto Pat, prosegue la propria auto-demolizione di star hollywoodiana. È un corpo in rovina, un antieroe che non sa più distinguere fra militanza e sopravvivenza. Accanto a lui, Sean Penn costruisce un villain memorabile, un tiranno farsesco e tragico, incapace di contenere il desiderio che lo corrode. E poi c’è Chase Infiniti, presenza dirompente, simbolo di una generazione che eredita soltanto rovine e tenta, ostinatamente, di trarne luce.
La musica di Jonny Greenwood accompagna questo universo, diventando il battito cardiaco del film, la voce muta di un paese che non sa più cantare la propria rivoluzione. E la regia, sempre più maestosa e inquieta, che alterna la lentezza contemplativa di Altman alla precisione glaciale di Kubrick, passando per l’ironia caotica dei Coen. C’è, in Una battaglia dopo l’altra, la percezione che il cinema sia sempre politico, non perché dica cosa pensare, ma perché ci costringe a pensare cosa stiamo diventando. È un film che guarda l’America e, nello stesso tempo, la sogna e la teme. Una nazione divisa come i suoi protagonisti, costantemente in guerra con la propria immagine e la propria storia.



