Un duello di materia: Prampolini e Burri, l’Italia nel secolo breve a Lugano

Entrare nella Collezione Olgiati a Lugano in questa stagione significa varcare la soglia di un’esperienza necessaria, attesa, quasi inevitabile. Prampolini Burri. Della Materia, aperta fino al 15 febbraio 2026, è un corpo a corpo con l’essenza stessa dell’arte italiana del Novecento. È un rito, un appuntamento che Giancarlo e Danna Olgiati ci avevano annunciato e che oggi prende forma: un trittico di confronti esemplari, duelli poetici tra giganti. Dopo Balla e Dorazio, dopo Klein e Arman, oggi tocca a Prampolini e Burri. E la materia — la nostra materia — prende voce, peso, respiro.

I due artisti si conobbero, eppure non ci furono mai due più distanti. Luigi Prampolini, europeo, cosmopolita, attraversato dal gusto evocativo e cosmico delle avanguardie storiche, capace di leggere il futuro come profezia. Alberto Burri, medico di formazione, soldato e prigioniero di guerra, che torna dall’esperienza traumatica della distruzione e trova nella pittura la lingua necessaria a dire la verità della realtà. Da una parte l’idealismo cosmico, dall’altra l’etica della forma. Da un lato le visioni astrali di Prampolini, il suo interrogare la materia come soglia verso l’ignoto; dall’altro Burri, che con radicalità afferma: la materia è la pittura.

Prampolini Burri Della Materia installation view

Come ha sottolineato Giancarlo Olgiati, una mostra di questo genere — l’unica a proporre un confronto vero e serrato tra i due — era assolutamente necessaria. E di questa necessità potrete vedere i risultati. I risultati sono semplicemente sorprendenti. E seppur meno sorprendenti perché si conosce meglio Burri, la vera grande sorpresa è proprio qui: perché, quando li vedete insieme, i due cantano. È un vero e proprio inno alla materia, che è centralissima in tutta l’arte italiana e che distingue l’arte italiana dall’arte del mondo.

Il percorso espositivo, pensato dall’architetto Mario Botta, è esso stesso parte del racconto. Botta non si limita a disporre le opere, ma costruisce uno spazio che amplifica la distanza e la tensione tra i due artisti. Da un lato il bianco luminoso e rarefatto di Prampolini, in cui spugne, sugheri e galalite diventano frammenti di universo, prefigurazioni cosmiche, indizi di un altrove. Opere come Intervista con la Materia (anni Trenta) e i polimaterici degli anni Quaranta mostrano come la sabbia, la colla, il sughero non siano semplici materiali, ma strumenti di visione, di esplorazione dello spazio e del cosmo. Dall’altro il nero di Burri, radicale e bruciante, in cui i sacchi lacerati, i cretti spaccati e le plastiche incendiate non rappresentano nulla ma sono: ferite, cicatrici, presenze. I Sacchi degli anni Cinquanta, i Cresti degli anni Settanta e le opere in cellotex e plastica bruciata testimoniano la drammaticità della storia vissuta e la potenza di una materia che parla direttamente all’occhio e all’anima.

Prampolini Burri Della Materia Installation view

Gabriella Belli, curatrice della mostra insieme a Bruno Corà, ci invita a comprendere la differenza profonda che separa questi due linguaggi. Prampolini, se in qualche modo si adatta a cogliere suggestioni dal realismo, lo fa quasi suo malgrado. Comprende che quella è l’onda verso cui si muove la ricerca, ma la interpreta con tutta la sua capacità innovativa. E arriva a quella stagione straordinaria dei polimaterici, in cui sabbia, colla e materiali poveri entrano nel quadro. Qui si gioca la differenza con Burri. Perché il polimaterismo di Prampolini rimane analogico, legato a un idealismo, a una rappresentazione. È ancora l’arte del primo Novecento, nutrita di simboli e visioni cosmiche: l’idea di una conquista dello spazio, di una visionarietà seducente, ma ancora misteriosa e lontana, in un’epoca che precede di decenni lo sbarco sulla luna.

E proprio qui si staglia la differenza radicale con Burri. La materia per lui non è metafora, non è simbolo, non allude a niente. La materia è. È colore, è ferita, è equilibrio. Nei Sacchi la materia si offre come pura presenza, nelle combustioni accade e si trasforma, nelle plastiche bruciate si fa storia viva e immediata. L’etica della forma coincide con l’autenticità della lingua: l’arte non deve raccontare altro che, sé stessa. Opere come il Grande Cretto Nero (1974-75) al Museo di Capodimonte o le serie in combustione di cellotex e carta confermano questa tensione verso l’assoluto equilibrio visivo e materico.

Prampolini Burri Della Materia Installation view

Bruno Corà, curatore insieme a Belli, ci ricorda che questa dialettica si inscrive in una trama più ampia: la storia dell’arte è una storia di famiglie. Gli artisti si appropriano di tutto, e sono autorizzati a farlo. Autorizzati da che cosa? Dalla necessità di articolare la lingua, la lingua pittorica, la lingua dell’arte. E in questa lingua la materia è un capitolo fondamentale. Oggi, di fronte a due grandissimi come Prampolini e Burri, riconosciamo come proprio il tema della materia abbia inciso profondamente nel plasmare l’arte italiana del Novecento.

Camminando nelle sale della Collezione Olgiati, il visitatore percepisce di trovarsi al centro di un dialogo che è insieme duello e alleanza. Da un lato Prampolini, che cerca nell’arte la metafora di un cosmo da conquistare, intrecciando forme geometriche e organiche in una lingua visionaria e seducente. Dall’altro Burri, che guarda alla materia come destino, come verità inaggirabile, trasformandola in pittura con una forza che è insieme crudezza e poesia. L’uno e l’altro, accostati, rivelano che l’arte italiana del Novecento non si è limitata a seguire correnti internazionali, ma ha trovato una sua via unica: quella della materia come lingua, come respiro, come canto.

Prampolini Burri Della Materia Installation view

E questa mostra ci restituisce non solo due figure straordinarie, ma un manifesto. Perché, quando li vediamo insieme, Burri e Prampolini le loro differenze si trasformano in risonanza, la distanza in polifonia. È allora che capiamo che la materia — nelle sue infinite declinazioni, dalla sabbia al catrame, dalla plastica al fuoco, dal sacco alla galalite — è stata la vera patria dell’arte italiana del Novecento.

I risultati, come ha detto anche Danna Olgiati, sono entusiasmanti. Non perché non conosciamo già i due giganti, ma perché visti insieme si rivelano più grandi, più veri, più corali. È davvero un inno alla materia, e con esso all’arte italiana, che nel Novecento ha saputo essere universale proprio restando fedele al peso, al respiro, alla verità delle cose.

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