Un breve viaggio nell’Isola Senza Nome prima che venisse sopraffatta dall’overtourism

Ho deciso di tornare sull’Isola Senza Nome. È un luogo magico, con due dei suoi Faraglioni che paiono essere famosi in tutto il mondo. Spuntano dal mare blu di  una piccola baia. Uno scenario da cartolina dei più agognati e sospirati. Il suo animo mi ha mosso le emozioni più devastanti, eppure mi sento in difetto. Sembra che io sia l’unica a vedere certe cose. Pare che io ci sia stata per i motivi sbagliati. “Sei sicura di essere stata sull’Isola Senza Nome?”, mi dicono. Vorrei rispondere che ne sono più che certa. Perché mi è sempre sembrato di vederne l’essenza più pura. Ma ora che quel posto dà di sé un’immagine così diversa, inizio a dubitarne anche io.

Allora sono voluta andare a Piazzetta delle Noci, all’alba. Mi ci portava mio nonno, perché è uno dei punti più panoramici e sconosciuti dell’Isola Senza Nome. Da lì, puoi vedere le insenature dimenticate, e immaginare i tempi antichi quando sui terreni più impervi vi pascolavano le capre…il nome di questi animali mi ricorda qualcosa. Tra l’altro, nella pineta accanto c’è un asmr naturale. Si sentono solo le cicale, sovrastano tutto! A volte dimentichiamo che il relax artificiale che ci siamo creati arriva proprio dalla natura. E a proposito di km 0, un bellissimo ristorante nei paraggi ha dedicato a questo posto uno spaghetto davvero succulento: un semplice aglio, olio e peperoncino a cui si aggiungono le note balsamiche del pino e la croccantezza e il gusto deciso delle noci. Meravogliosamente viscerale.

Decido poi di incamminarmi su questo sentiero del Pizzolungo – che è sì un po’ faticoso – ma ne vale decisamente la pena. Quei famosi Faraglioni di cui parlavo prima, si vedono da qui in modo diverso. È come se ci girassi attorno, man mano che il percorso segue le curve del costone. Ci avevano passeggiato anche i Futuristi agli inizi del ‘900, che trovavano in questo cambio di prospettiva e movimento la sintesi perfetta dell’idea di continuo mutamento. È solo uno dei tanti aneddoti artistici dell’Isola Senza Nome: trovo estremamente affascinante che un luogo da scoprire, riponga nelle nostre mani degli indizi sulla propria storia. Non urla la propria cultura, te ne lascia un piccolo assaggio. Sta a te scoprire il resto.

E in effetti è proprio cosi, perché il pittore Diefenbach è stato una magnifica presenza qui. Ma prima di visitare il Museo a lui dedicato, in quelle sale polverose e dal caratteristico odore di chiuso, non ne sapevo molto. L’arte che nasce dal contesto è sempre stata la mia preferita. Non è trasportabile, non sopravvive altrove. Uno dei suoi notturni evoca persino l’odore salmastro: lo sento nell’aria pensando ai ciottoli che ti fanno pensare di dovertela conquistare quell’acqua in cui desideriamo tuffarci.

È bello pensare che la creatività, qui sull’Isola Senza Nome, sia più possibile che altrove. Lo diceva Joseph Beuys. C’è un piccolo laboratorio, infatti, che si occupa di moda: oltre ai tessuti e alle stampe di ispirazione locale tra flora, fotografie vintage e colori simbolici, è la qualità dei capi a commuovermi, perché so di per certo che vengono fatti tutti a mano, in una casa dal tetto bianco dove è possibile lavorare in pace, come tanto tempo fa. Nessuna disponibilità immediata, pezzi unici, collezione rara

Continuando la mia passeggiata, mi soffermo su tutte le piccole maioliche che trovo per le stradine strette, dove è possibile arrivare solo a piedi. C’è tanto silenzio e solo il suono dei miei passi. Ogni casa ha un suo monito. Il mio pensiero va subito a quella raccolta chiesetta dall’altro lato dell’Isola: al suo interno, vi è uno dei più grandi esempi di pavimentazione maiolicata, risale al 1761, ed è opera di Leonardo Chiaiese: Adamo ed Eva vengono cacciati dal Paradiso. Nel mentre, un unicorno fa da punto di congiunzione tra il divino e il terreno. 

Ma se questo posto ha così tanto da raccontare, perché la sua identità non ha un nome? È possibile saccheggiare, spremere e consumare a tal punto un luogo tanto da non intravederne più l’originaria essenza? Ciò che prima era un’antropologica accezione di rifugio, appare oggi come un’infuocata location instagrammabile. Del suo nome si è talmente tanto abusato da confondere la sua natura con un brand, con conseguenti operazioni di marketing che ne hanno offuscato il volto. Non v’è più grazia nel passeggio, né gentilezza nell’incontro. È una corsa ad ostacoli verso la prossima reliquia social che non ti consente di respirare l’odore del rosmarino nei pressi di via Krupp. Non saprai mai che esiste un parco filosofico dove guardare il tramonto, circondato dalle più belle citazioni sul dubbio della nostra esistenza, dalle domande sul qui e ora, dall’incertezza di un presente vissuto già in passato.

Ma riesco ancora a intravedere il mio rifugio, spazi per la mente e per il corpo che mi hanno insegnato la meraviglia e lo stupore di piccoli gesti d’arte. Ritorniamo a quell’ispirazione, a quelle dediche che definiscono una realtà unica. Io voglio rimanere qui: sull’Isola Senza Nome. Perché un nome ce l’ha, ma quello vero ora lo conosco solo io.

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