Massa, Cermec, impianto di trattamento rifiuti. Tre giorni in cui tutto ciò che normalmente viene scartato — materiali, persone, idee fuori dai margini — è diventato protagonista. È difficile raccontarlo a chi non c’era, perché il Festival Rifiutati non è stata solo una mostra, né solo un evento. È stato un organismo vivo, un continuo brulicare di incontri, sguardi e mani che si sporcavano di colore, polvere di marmo e memoria.

Già all’inaugurazione si capiva che sarebbe stato diverso. Giacomo Cossio ha dipinto dal vivo il corpo di Lorenzo Porzano, amministratore unico di Cermec, trasformandolo in una creatura vegetale, un essere ibrido tra scultura e uomo, simbolo vivente di metamorfosi e rivendicazione. Nessuno era spettatore passivo: il pubblico si accalcava, rideva, si emozionava, mentre sullo sfondo i capannoni del compostaggio diventavano cattedrali post-industriali di bellezza imprevista.
Giuseppe Veneziano ha messo Superman a schiantarsi contro il soffitto di un capannone. Un impatto che sembrava raccontare tutta la nostra fatica contemporanea di restare eroi in mezzo a un mondo che frana, ma anche la forza di rialzarsi. Fabio Viale, con la sua opera sullo spreco alimentare, ci ricordava quanto valore ci sia in ciò che buttiamo, mentre Corrado Bonomi faceva sbocciare un gigantesco fiore di plastica tra i cassoni metallici.

I bambini e i ragazzi dell’Anfass, assieme a Filippo Tincolini, hanno realizzato una Venere dei sassi: semplice, potente, una creatura ancestrale nata dai frammenti. Gli anziani delle RSA hanno portato le loro mani antiche a costruire piccoli oggetti e memorie condivise. I detenuti del carcere di Massa hanno inviato una cella in cartone a grandezza naturale. Entrare lì dentro era come sedersi accanto a chi è invisibile. Ed è stato forse uno dei luoghi più visitati e fotografati.

C’era la pista da bocce di sabbia di marmo, il torneo di biliardino, i ragazzi di Felipe Cardeña che cucivano una tenda hippie con stoffe provenienti da ogni angolo del mondo, e Giovanni Motta che dava fuoco alle immagini di Jonni Boy, quasi a volerci liberare dal fardello delle icone.

Il maestro orafo Stefano Alinari e i suoi studenti realizzavano gioielli sul posto, mentre Florencia Martinez coinvolgeva il pubblico in una performance di autocoscienza che ha commosso più di qualcuno, e Alessandra Pierelli accoglieva gli ospiti con una surreale tavola imbandita tra verità e finzione. Danilo Sergiampietri tracciava ritratti su marmo, solo per cancellarli a fine giornata, come a dire che ogni memoria è preziosa anche quando scompare.

Fabio Giampietro ha creato una foresta di vecchie televisioni, alcune ancora accese, altre mute e polverose, su cui Alessandro Branca ha suonato il violoncello e il clavicembalo. Un suono antico e sottile che si insinuava tra i rifiuti e le opere.

Il dialogo tra arte e fragilità ha attraversato l’intero festival: dalle installazioni realizzate con vestiti usati da Cristiano Gassani & Luca Marchini, alle Fioriture sintetiche di Luca Baldocchi e Matteo Mandelli — 17 schermi che alternano immagini di fiori digitali e paesaggi distopici — fino alla rivisitazione luminosa dell’Arcimboldo di Stefano Banfi, dove un topolino si nutre degli scarti accanto a un bruco, quasi pronto a diventare farfalla, a chiudere e riaprire la ciclicità della vita, alle foto di Laura Veschi dedicate all’identità femminile, troppe volte negata, umiliata, abusata.

E poi Andrea Crespi, Avassena con le sue lastre ai raggi X, Manuel Felisi e il suo omaggio a Morandi su cubi di pietra, Pao con i suoi Pinguini sui panettoni, il pubblico che danzava tra le opere, le parole dei convegni che rimbalzavano sulle lamiere, le mani che si stringevano. Il Cermec non era più solo un impianto industriale. Era una piazza. Un teatro. Un laboratorio di possibilità.

Tre giorni in cui anche chi normalmente è messo ai margini — i fragili, i detenuti, i bambini, gli anziani — è stato al centro. Non come elemento di contorno, ma come cuore pulsante. Insieme agli artisti, al pubblico, ai lavoratori di Cermec che hanno visto il loro luogo di lavoro trasformarsi in qualcosa di mai visto.

Alla fine, restano gli scatti, le opere, la polvere di marmo ancora per terra. Ma soprattutto, il ricordo di una piccola rivoluzione: aver dimostrato che la bellezza può nascere ovunque. Anche tra i cassoni di compostaggio.