Il terzo episodio della Tetralogia introduce il personaggio di Sigfrido, un giovane che non conosce la paura protagonista di un intreccio fiabesco in cui ricorrono il sentimento della Natura e gli ostacoli da superare, fino all’incontro con la Valchiria che per lui rinuncia alla sua natura divina.
Questo giugno va in scena al Teatro alla Scala il terzo capitolo del ciclo Der Ring des Nibelungen di Richard Wagner, un progetto fortemente voluto dall’ex sovrintendente Dominique Meyer, che si concluderà a febbraio 2026 con Götterdämmerung (“Il Crepuscolo degli Dei”).
“Siegfried” è la celebrazione dell’eroe romantico, un giovane in forte connessione con la natura, che sfida l’autorità e non conosce la paura né la sconfitta, ed è esattamente questo che lo spettatore vede nella rappresentazione con la regia di David McVicar, che, come per i primi due capitoli della tetralogia, ricrea il mondo fantastico nella storia, popolato da mostri, Dei, creature fatate e uomini guerrieri.

Sono passati alcuni anni dagli eventi che hanno portato la valchiria Brunhilde a essere imprigionata, dormiente, in una fitta foresta, circondata da un anello di fuoco. Siegfried, il figlio dell’amore incestuoso dei fratelli Siegmund e Sieglinde, stirpe mortale di Wotan, è cresciuto orfano nella caverna del nano Mime, che intende riforgiare la potente spada Nothung e servirsi del ragazzo per uccidere il drago Fafnir e impossessarsi dell’Anello che rende il suo proprietario padrone del mondo.
Siegfried uccide effettivamente il drago, ma bevendone il sangue, scopre che Mime intende ucciderlo non appena avrà l’anello, perciò uccide il suo padre putativo, si impossessa del gioiello e di un elmo che rende invisibili e poi, spinto dalla forza implacabile del destino, si reca nel luogo di riposo di Brunhilde e la sveglia con un bacio. Brunhilde si innamora, infine, di Siegfried e rinuncia alla sua vita immortale per condividere quella, mortale, di lui.
Le scene architettate da McVicar sono scure, fumose e profonde, ravvivate dalle luci nitide e cangianti di David Finn. Il regista fa con un largo uso di figuranti e servi di scena, che danno vita, via via, a Fafnir, alla foresta e all’uccellino parlante. Fantasiosi sono i costumi di Emma Kingsbury, che giocano su cromie scure e neutre, pur con alcune eccezioni. Ogni atto è introdotto da un sipario nero, sul quale si stagliano le fattezze di un drago dall’occhio infuocato, circondato da un anello: un effetto molto grafico e diretto, che aiuta il pubblico a mantenersi nel mood dell’opera, nonostante le quasi cinque ore di spettacolo.

L’orchestra della Scala è diretta dall’australiana Simone Young, che negli stessi giorni sta riproponendo “Salome” di Strauss a Zurigo. La sua è una direzione chiara ed energica, senza mai lasciare che la potenza dell’orchestra sulla partitura di Wagne soverchi la voce dei cantanti in scena, tutti di ottimo livello.
Nei panni dei protagonisti troviamo due artisti wagneriani. Klaus Florian Vogt con un convincente Siegfried, nonostante la personalità scenica non proprio giovane. Un po’ di stanchezza nel terzo atto risulta più che comprensibile e comunque ben mascherata da grande tecnica ed esperienza. Camilla Nylund è una Brünnhilde dalla voce ampia, luminosa, penetrante negli acuti. Il baritono Michael Volle è Wotan e sfrutta una dizione perfretta e un portamento monumentale, insieme a un’ottima vocalità, dipinge un re degli dei sibillino quanto statuario. Il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke è ironico e tagliente, subdolo il giusto. Completano il cast il baritono islandese Ólafur Sigurdarson/Alberich, Ain Anger/Fafnir, la Erda di Christa Mayer e la voce cristallina di Francesca Aspromonte nelle piume dell’uccellino del bosco.
Il Siegfried della Scala è una vera e propria fiaba cantata, con tanti degli elementi che ritroviamo con facilità nelle fiabe e nei libri odierni, e quindi facile da seguire nonostante la durata. Uno spettacolo pulito e lineare, molto filmico e fedele al libretto. Il pubblico apprezza.
Complimenti,come sempre bravissima 👏👏👏👏