The Life of Chuck: tra Stephen King, Flanagan e il mistero dell’esistenza

Stephen King, etichettato con troppa fretta come “Re del brivido”, ha sempre avuto un dono che travalica il genere: quello di illuminare l’umanità nelle sue forme più fragili e contraddittorie. Al centro delle sue storie non c’è mai soltanto il mostro che ringhia nell’ombra, ma l’uomo che lo guarda, tremante, portando in sé un groviglio di paure, desideri e ferite che ci appartengono tutti. È questo sguardo che Mike Flanagan ha saputo comprendere più di molti altri, trasformandolo in immagini, prima con Il gioco di Gerald e Doctor Sleep, poi con serie come The Haunting e Midnight Mass, che respirano di un lirismo kinghiano. Il loro sodalizio si arricchisce oggi di una nuova tappa: The Life of Chuck.

Presentato al Toronto International Film Festival 2024 e accolto dal Premio del Pubblico, il film si confronta con uno dei racconti più intimi di King, contenuto in Se scorre il sangue. Qui l’orrore non esplode in demoni o clown assassini, ma si insinua nei vuoti dell’esistenza, nei silenzi, nella malinconia che accompagna il tempo che scivola via. Perché se l’orrore è la morte, la vita resta il suo contrappunto più fragile e prezioso.

Flanagan orchestra il racconto in tre movimenti a ritroso, come un puzzle che si ricompone solo al termine. Incontriamo Chuck (Tom Hiddleston, austero e vulnerabile insieme) dapprima come icona fantasmagorica in un mondo al collasso: il suo volto campeggia sui cartelloni pubblicitari mentre catastrofi naturali e collassi tecnologici annunciano la fine. Poi lo ritroviamo nel cuore pulsante del film, in una danza che non è solo gesto ma liberazione, inno vitale, ribellione al silenzio. Infine lo seguiamo adolescente, timido e orfano, in un cammino che svela l’origine di quella moltitudine di esperienze e affetti che fanno di lui non un contabile qualunque, ma il perno segreto di un intero universo di memorie.

Il film si muove in bilico tra registri narrativi diversi — apocalittico, intimista, adolescenziale — e la scelta di ricorrere a una voce narrante (in originale Nick Offerman) richiama antichi echi cinematografici, da Stand by Me a certi esperimenti letterari difficilmente traducibili in immagini. È un rischio che Flanagan accetta, e che talvolta paga, tenendo insieme frammenti che altrimenti sembrerebbero tre storie separate.

Tra cammei illustri (Mark Hamill, Jacob Tremblay) e omaggi cinefili (da Cantando sotto la pioggia a All That Jazz), The Life of Chuck diventa anche una riflessione sul potere del cinema e della cultura pop come deposito di sogni, memorie e identità collettive. I passi di danza, il moonwalk, le VHS di musical classici: sono frammenti che Flanagan intreccia al vissuto del suo protagonista, trasformandoli in ponti tra l’intimità dell’individuo e l’immaginario condiviso.

Non tutto riesce con la stessa forza: l’andamento a ritroso, che regala al film un’impronta originale, talvolta indebolisce la sua onda emotiva, frenando l’empatia dello spettatore. Ma quando il mosaico finalmente si ricompone, l’opera mostra il suo volto più autentico: una meditazione sulla caducità, sull’attesa della fine, sull’urgenza di cogliere l’istante. L’eco lontana di Kubrick e la malinconia del Miglio verde risuonano nell’ultimo atto, dove l’emozione esplode tardivamente, ma con intensità.

Alla fine resta un film imperfetto ma necessario, che ci invita a guardare alla nostra vita con la consapevolezza che ogni gesto — un ballo improvvisato, un abbraccio recuperato, una passione coltivata in silenzio — è parte di un racconto che vale la pena celebrare. The Life of Chuck non parla di morte: parla della splendida, fragile irripetibilità di essere vivi.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Didatticarte: Il volto inclusivo del collezionismo didattico

Dopo quasi quindici anni dalla creazione del sito Didatticarte.it, Emanuela Pulvirenti continua ad essere attivissima nell’ambito della didattica della storia dell’arte, dedicandosi infaticabilmente alla divulgazione di contenuti specialistici attraverso i diversi canali social.

Artuu Newsletter

Scelti per te

Non c’è immagine più intensa, più intima, più interiore dell’ombra. Ceroli Totale alla GNAMC

“Un artista che riesce a meravigliarsi e a meravigliare”: queste le parole che la direttrice della GNAMC (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) Renata Cristina Mazzantini utilizza per descrivere Mario Ceroli, l’autore a cui è dedicata la mostra dal titolo Ceroli Totale (curata da R.C. Mazzantini e C. Biasini Selvaggi), inaugurata il 7 ottobre alla GNAMC.

La macchina, il corpo, il gesto: l’eredità di Léger alla Reggia di Venaria

Nel 1924, il pittore francese Fernand Léger (1881–1955), insieme al regista americano Dudley Murphy, presentò al cinema Ballet Mécanique: un cortometraggio sperimentale che si proponeva come un vero manifesto visivo della modernità industriale

Il design come ponte verso l’arte: l’opera di Franco Perrotti alla Fabbrica del Vapore

Nel lavoro di Franco Perrotti, designer e artista dalla incontenibile poliedricità, questi due aspetti si compenetrano, dando vita a una ricerca singolare e ibrida che si muove tra diversi linguaggi espressivi.

Seguici su Instagram ogni giorno