Trent’anni. Questa la durata media della vita di un edificio in Giappone, dove, dopo la rapida crescita economica seguita alla Seconda Guerra Mondiale, l’industria edilizia si è sviluppata seguendo il modello “rottamazione e costruzione”, consistente nell’implacabile susseguirsi di cicli di abbattimento di edifici e costruzione di nuovi. Oggi, una nuova generazione di architetti sta tendando di invertire la rotta e sta dando origine a un nuovo linguaggio architettonico, in grado di rispondere a questioni cruciali per la contemporaneità come l’invecchiamento della popolazione e il calo demografico, uno sviluppo urbano asservito al profitto, il crescente aumento di case sfitte e la crisi climatica.
Tali ricerche sono presentate, con un notabile sforzo di sintesi e di chiarezza espositiva e curatoriale, nella mostra di S AM Swiss Architecture Museum Make Do With Now. Nuovi orientamenti dell’architettura giapponese, visitabile fino al 5 ottobre 2025 presso il Teatro dell’architettura Mendrisio (TAM) dell’Università della Svizzera italiana (USI). L’esposizione, a cura di Yuma Shinohara, raccoglie le idee e i progetti di una nuova generazione di architetti e urbanisti giapponesi che ha iniziato a lavorare dopo il terremoto del 2011 e l’incidente nucleare di Fukushima.

Questa generazione “post-2011”, ben consapevole della fragilità e delle contraddizioni dei sistemi sociali, economici e politici vigenti, ha deciso di reagire a esse con un approccio di rete, di network (e in questo è rintracciabile l’influenza dell’Actor Network Theory di Bruno Latour): in un senso, l’architettura viene considerata una forma dinamica e mutevole all’interno delle relazioni materiali, sociali ed economiche che costituiscono la società; nell’altro, gli architetti lavorano in collettivi e gruppi, si confrontano direttamente con i designer, i clienti, la collettività.
Nel fare ciò, i progettisti attuano un ripensamento dello statuto dell’architettura e una risignificazione del ruolo dell’architetto-autore. La scelta di quali architetti chiamare a rappresentare i nuovi orientamenti dell’architettura giapponese ha seguito solo parzialmente un principio generazionale (progettisti nati tra gli anni Ottanta e Novanta), per prediligere in modo particolare l’identificazione di una consonanza di interessi e sensibilità.
Tra gli elementi di affinità rientra la scelta di lavorare alla trasformazione e ristrutturazione di immobili già edificati, piuttosto che costruirne da zero, in linea con il concetto espresso dalla parola giapponese mottainai (traducibile con “che spreco!”), il rammarico tanto per aver sprecato qualcosa, quanto per non avergli permesso di sviluppare il suo potenziale.

Gli architetti di cui sono esposti i progetti hanno dunque elaborato pratiche critiche, ecologiche e sociali, con un approccio riassumibile nell’espressione – mutuata da una commedia di Luigi Zampa – “l’arte di arrangiarsi” con il patrimonio edilizio e i materiali di cui già si dispone.
Così, antichi modi di costruire e abitare come l’edificazione di case collettive, la creazione di reti sociali di quartiere, l’artigianato tradizionale associato a un’etica dei materiali, le economie autosufficienti dei villaggi rurali – elementi che sono stati svalutati e tralasciati in nome della crescita e dello sviluppo – vengono oggi rivalutati e recuperati.

La pratica di questi architetti si estende ben oltre l’esclusiva progettazione architettonica e intende generare processi virtuosi nello sviluppo della comunità, compiendo atti di riparazione e rivalorizzazione. L’impegno riversato su tali luoghi e sulle persone che li abitano è scrupoloso, rispettoso e graduale, nel tempo e nei modi, tanto che si può parlare di “gradualismo” (etichetta coniata dallo studioso Leo Tanishige) per definire le modalità operative dei giovani architetti, che tentano di migliorare gradualmente l’attuale sistema socio-economico.
Il percorso espositivo chiarifica tale pluralità di progettualità e temi suddividendoli in due sezioni. La prima raccoglie venti progetti rappresentativi, avviati o conclusi negli ultimi cinque anni. Da questa panoramica emerge chiaramente come gli spazi architettonici si aprono all’interazione con la città e con la comunità.
La seconda sezione presenta cinque studi di architettura attivi oggi in Giappone – Mio Tsuneyama + Fuminori Nousaku Architects, 403architecture [dajiba], CHAr, tomito architecture e dot architects – che hanno elaborato un approccio originale alla questione del ruolo dell’architetto nella società. Anche l’ambiente in cui vivono e lavorano diventa un terreno di sperimentazione, come nel caso di Holes in the House, manifesto di un modo diverso di pensare e fare architettura.
Gli edifici divengono un palinsesto, raccolgono su di sé la stratificazione di una storia locale, generazionale e culturale, come nel progetto Chidori Bunka di dot architects.

Il percorso espositivo si conclude con una selezione di libri e letture che hanno ispirato l’elaborazione dei progetti. Questa chiusura riconferma la profondità e la serietà del lavoro di studio e ricerca, arricchita anche da una rassegna di cinque conferenze pubbliche.
Riprendendo le parole del direttore del Teatro dell’Architettura Walter Angonese, si tratta di “una mostra importante per riportare l’architettura sulla consapevolezza delle piccole cose”.
E della società tutta, non solo giapponese. Infatti, ciò che accade oggi in Giappone riguarderà con ogni probabilità anche l’Europa nei prossimi decenni.
Make Do With Now è, dunque, una preziosa occasione per riflettere sul ruolo dell’architettura a livello globale e interrogarci su quale società vogliamo (ri-)edificare.