Fra i palinsesti della nostra memoria collettiva, pochi nomi risuonano come quello di Enzo Tortora. Figura elegante, voce educata al garbo, conduttore che seppe trasformare la televisione. Il suo Portobello era una festa popolare trasmessa in diretta, un evento capace di radunare ventotto milioni di italiani davanti allo schermo, come se il Paese intero si fosse dato appuntamento nello stesso salotto. Eppure, nel cuore di questa parabola luminosa, irrompe la tragedia.
È il 1983 quando Tortora viene catapultato nella più nera cronaca giudiziaria. Lo arrestano come fosse un criminale, lo accusano di traffici inconfessabili, lo dipingono come sodale della camorra. Un copione da cinema neorealista, se non fosse che la realtà supera ogni sceneggiatura, frantumando la vita di un uomo. La vicenda si scoprirà poi essere un mosaico distorto di calunnie, malafede e scambi di persona.

È questa la materia incandescente che Marco Bellocchio plasma in Portobello, prima serie originale italiana di HBO Max, che abbiamo visto in anteprima durante la Mostra del Cinema di Venezia 2025. Bellocchio, che da sempre abita i confini porosi tra la Storia con la “S” maiuscola e le vicende intime dei suoi protagonisti, torna sul piccolo schermo a tre anni da Esterno notte.
Ma se lì l’Italia era osservata attraverso il sequestro Moro, qui la lente si posa su un altro trauma nazionale: l’arresto di un uomo innocente, trasformato in colpevole esemplare da un Paese in preda alle proprie ossessioni giudiziarie e mediatiche. Il percorso di Tortora – incarnato da un Fabrizio Gifuni monumentale – sembra scolpito da una mano crudele: dalle luci abbaglianti degli studi di Portobello, programma capace di incantare milioni di spettatori, fino al buio claustrofobico del carcere, luogo dove il gioco mediatico si rovescia in incubo. Un Paese intero rideva con un pappagallo che ripeteva il suo nome, e poi quello stesso nome diventava il marchio infamante scritto negli atti giudiziari.

Bellocchio non si limita a raccontare un errore giudiziario: interroga un sistema, smonta i meccanismi dell’opinione pubblica, mostra il lato crudele della folla che si accalca non più davanti allo schermo televisivo, ma dietro le sbarre della gogna. È un affresco che alterna il teatro ipnotico della TV – con i suoi momenti sospesi, quasi magici – al dramma umano di un uomo solo, costretto a difendere la propria integrità come ultimo bene inalienabile.
Il merito maggiore della serie è quello di restituire Tortora non come martire da santificare, ma come individuo complesso: elegante, fragile, contraddittorio, amante segreto, uomo che sbagliava eppure non rinunciava alla propria dignità. Gifuni porta in superficie il garbo d’altri tempi del conduttore e insieme la sua ferrea volontà di non piegarsi, nemmeno quando tutto intorno implode. E poi c’è lo sguardo di Bellocchio, sorprendentemente vigoroso, uno sguardo che non edulcora, non consola. Portobello è il ritratto di un Paese che applaude con la stessa intensità con cui condanna, e che raramente si interroga sul prezzo umano delle proprie passioni collettive.



