“Ho sempre avuto una certa antipatia per le definizioni troppo limitate, sia etniche, sia geografiche, religiose, politiche. Scherzosamente mi definisco Citluvit, cittadino della Luna in visita di istruzione sul pianeta Terra“
Sospeso fra più mondi, forse conoscibili ai soli temerari, Fosco Maraini interpretava sé stesso come anima irriducibile, costantemente protesa verso la conoscenza e quindi la ricerca di un senso di tutto, dell’esserci. Quel tutto che la sua biografia, appigliandosi al molteplice di quanto chiamiamo “culture”, basterebbe a restituire, invero limitandosi ad accrescere la nostra curiosità su una figura avulsa dall’ordinario, antropologicamente attenta alla diversità.
Un valido supporto per avvicinarci alla sua conoscenza è la fotografia, personale sguardo sul mondo che Maraini frequentò vigorosamente e mirabilmente durante l’arco della sua esistenza e fin dalle peregrinazioni scientifiche in Tibet e Giappone, dei quali fu fine conoscitore, amante e studioso secondo più prospettive, prime fra tutte quelle linguistiche ed etnologiche, sulla scorta della sua formazione: fra i suoi maestri, il grande orientalista Giuseppe Tucci.
Imperdibile, a tal proposito, risulta l’esperienza offerta da L’immagine dell’empresente. Fosco Maraini. Una retrospettiva, imponente mostra fotografica allestita presso il Museo delle Culture di Lugano e curata, assieme al bellissimo catalogo (presente nell’allestimento), dal suo direttore Francesco Paolo Campione, il quale propone un percorso lungo oltre duecento scatti, alcuni dei quali inediti, realizzati attraverso Europa e Asia fra il 1928 ed il 1971.
Accostarsi a Fosco Maraini risulta semplice attraverso il suo l’obiettivo, e lo stesso nome dell’iniziativa, scaturita dalla scrupolosa esplorazione dei suoi archivi fotografici e particolarmente dal Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, racconta il suo rapporto peculiare con la lingua, col fare la lingua, ch’egli traduce nella sistemazione della metasemantica, lessico evocativo da cui deriva lo stesso empresente, ovvero il “momento che viviamo, è il presente che emerge e che si srotola nel futuro, cioè proprio adesso”.
Simile principio, in effetti, non stenta a comparire nei sontuosi lavori di Maraini, appunto scrittura di frammenti fugaci ma non per questo dipendenti da un soggetto o un tema dominante; alternanti, quindi, l’ariosità dei paesaggi montani, a volte casa delle popolazioni Ainu giapponesi di cui fu massimo conoscitore, alla specificità individuale e materica, e fissando per sempre attimi a cui, pure ripetibili nella loro capacità rituale e quotidiana, Maraini conferisce il lirismo e l’unicità dell’esistenza conosciuta.
Tenere e penetranti, le sue fotografie sono una questione familiare, un esercizio per ricordarsi. Valli, piante, donne e uomini, animali, vite e sguardi ed esitazioni, architetture artificiali e naturali sono meticolosamente illustrate dallo sguardo scientifico e al tempo stesso coinvolto dell’etnologo e orientalista, che illustra le tracce di un’alterità lontana ma che appare raggiungibile grazie all’idioma comune: la semplicità ritratta, che è anche quella che tendiamo a disconoscere.
D’altra parte, “vedere tanto mondo” era un auspicio mai celato, e di vita in ogni sua forma Maraini si ubriacò al punto di sfiorare il cielo: è nota, fra le altre, la sua attività come alpinista, soprattutto dedicata alla frequentazione delle Dolomiti, anticamera dei viatici verso la sua Svizzera. Ampiezza e vastità da un lato e dettaglio e precisione dall’altro ma senza finitezza alcuna: ciascuna immagine è un ponte semantico che ci parla degli altri domandandoci di noi stessi e del nostro percorso culturale, sulle cui strade il ripensarsi è nemico dell’approdo, che agogniamo sempre più distante.
Fino al 19/01/2025 L’immagine dell’empresente racconta la forza della conoscenza e decodifica con grazia il senso dell’esserci, prerogativa che Fosco sembra avere trasmesso a sua figlia Dacia, continuatrice della sua attenzione al multiforme della vita.