Occhialini da saldatore e scimmie col cellulare: l’umanità sospesa di Giannelli alla Fabbrica del Vapore

Dopo il successo di Mr. Arbitrium, l’enorme colosso scultoreo in marmo comparso ai nostri occhi nel 2022 che “sorreggeva” (o spingeva via?) l’Arco della Pace, Emanuele Giannelli ritorna a Milano da protagonista, nel polo culturale di Fabbrica del Vapore, una scelta non casuale.

“Emanuele Giannelli. Il caos e l’uomo. Contemporanea tensione.” è il titolo della mostra che dall’11 giugno al 29 di settembre ripercorre a tutto tondo la sua carriera artistica, mostrandoci alcuni suoi lavori più noti e altri meno conosciuti dell’artista nato a Roma e residente in Toscana.

La scelta di alternare spazi interni ed esterni, con alcune opere collocate nella grande piazza pubblica della Fabbrica del Vapore e altre nella più raccolta Sala Bianca, riflette con coerenza il pensiero di Emanuele Giannelli. L’artista conferma quanto l’ambiente urbano – anche se, in questo caso, protetto dalle mura di un complesso culturale – sia per lui il contesto più stimolante e imprevedibile. È lì che l’arte si espone a un giudizio diverso, più diretto, forse anche più sincero.

Da Roma alla Toscana, Giannelli ha portato a Milano cinquanta sculture: uomini con i classici occhialini da saldatore, figure che sembrano gridare con la consapevolezza di non esistere davvero. Sono I Sospesi, I Korf, giganti che fissano il cielo; oppure le scimmie della Monkey Tribù, intente a usare lo smartphone mentre, a loro volta, vengono riprese da qualcuno. Un mondo che osserva e si lascia osservare, in un gioco continuo di specchi e dispositivi.

L’uomo occidentale, cioè noi industrializzati, ha una capacità incredibile di realizzare la tecnologia. Però, secondo me, la gestiamo male, o meglio, non la sappiamo gestire. Quindi, da una grandissima capacità che abbiamo, noi abbiamo anche un senso di autodistruzione

Il contrasto tra la durezza industriale dell’ex officina tranviaria e la forma ibrida dei suoi “visionari” funziona: ci costringe a domandarci se stiamo assistendo all’evoluzione dell’uomo o all’emergere di un nuovo arredo urbano, pronto a occupare i prossimi bypass metropolitani.

Non è la prima volta che Giannelli fa discutere. Ma a Milano, questa mostra non ha nulla di autoreferenziale: sembra piuttosto un invito a perdersi in un percorso di allerta visiva e ironia. Dai Monkey Tribù a Mr. Arbitrium Mirrored – scultura tanto imponente da riflettere persino la nostra (in)attenzione collettiva – il cammino si snoda tra provocazione e risonanza.

Giannelli parte da una consapevolezza: oggi i confini fra soggetto e tecnologia, fra individuo e macchina sociale, si sono dissolti. Gli occhialini da saldatore, sua firma estetica, non sono un vezzo formale, ma il simbolo di quei filtri tecnologici che ci trasformano in creature ibride, sospese tra realtà e simulazione.

Così prende corpo l’ossimoro di Erasmo da Rotterdam“lucida follia” – e le sue anatomie in tensione ci costringono a riconsiderare le categorie precostituite tra umano e artificiale. In questo fragile equilibrio tra razionalità e visione estrema, Giannelli ci ricorda che l’uomo contemporaneo non è un punto d’arrivo, ma un organismo in perenne mutazione.

L’allestimento firmato da Nava + Arosio (Paolo Nava e Luca Arosio), con il supporto di ILMAS per la luce interna, arricchisce l’esperienza. Di giorno la Sala Bianca accoglie la luce naturale, mentre di sera le atmosfere si fanno più drammatiche grazie al progetto luminoso di Germano Monguzzi e WAVE Light Studio, che scolpisce ogni dettaglio delle opere. In questo ambiente più intimo, la monumentalità delle sculture si contrae, lasciando spazio a una riflessione intensa, concentrata, quasi ossessiva.

Perché la luce, quando si parla di scultura, non è mai neutra: modella, rivela, conferisce senso. È essa stessa parte dell’opera, dichiara la sua presenza.

Sappiamo, o meglio sapremo gestire tutto questo grande cambiamento che ci sarà? Io non lo so. Però dobbiamo lavorarci fortemente, perché potrebbe essere molto pericoloso. Emanuele Giannelli

Giannelli ragiona ad alta voce sulle nostre ansie contemporanee, trasformando paure e fragilità in armature di bronzo. Il pubblico – distratto, curioso, interdetto – si trova immerso in un dialogo aperto, privo di giudizio. Ogni figura è un invito a fermarsi, a pensare, e forse anche a sorridere. Davanti a questi “visionari” che sembrano guardare lontano, ma sempre un po’ dentro di noi, resta aperta una domanda: cosa significa davvero essere umani in un tempo che ha perso i suoi punti fermi?

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