I musei vivono oggi in un equilibrio fragile tra contemplazione e presenza pubblica. Luoghi progettati per custodire la memoria e sollecitare lo sguardo, diventano sempre più spesso teatro di incidenti che riflettono una tensione crescente tra opera d’arte e pubblico. È quanto accaduto recentemente in due episodi diventati virali: il primo a Verona, nelle sale di Palazzo Maffei, l’altro nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
La prima “vittima” è la “Sedia Van Gogh” di Nicola Bolla, una scultura interamente composta da struttura metallica e cristalli Swarovski che è stata danneggiata da un visitatore che ha pensato bene di far finta di sedersi sopra di essa, salvo poi perdere l’equilibrio. Il gesto, privo di intenzioni distruttive, si è consumato in pochi secondi, approfittando di un momento di distrazione della sorveglianza.
L’opera, creata come simbolo della vanitas contemporanea, non era pensata per l’uso funzionale, ma per evocare il contrasto tra apparenza e sostanza. Mentre, per i turisti, invece, si tratta solo di una sedia luccicante e costosa da utilizzare per scattare l’ennesima fotografia da postare sui social. Pochi secondi sono stati sufficienti ad effettuare i danni e fuggire immediatamente dopo. Eppure, questo non è soltanto un episodio di cronaca, è una dimostrazione del rapporto distorto, ambiguo, che la società intrattiene con la cultura: una relazione vittima della superficialità, dell’attimo fugace, dell’ignoranza verso il contesto in cui essa prende piede e della smania di documentare ogni esperienza. Bisogno spinto all’estremo durante il viaggio, divenuto un’occasione di rivalsa, uno strumento utile a vendere una versione attraente e dinamica di sé.

In questi casi il danno economico e fisico all’opera corrispondo ad un’altra lesione, più sottile ma altrettanto grave: quella socio-culturale. Quando la sedia ha ceduto è stato infranto un codice simbolico ed etico, lo sguardo ha perso la direzione prestabilita. Il manufatto non era costruito per accogliere corpi, ma per sollecitare riflessioni. Come gran parte dell’arte odierna, esisteva in una dimensione sospesa perennemente in tensione tra oggetto e simulacro, forma e destinazione d’uso.
Il danno ha portato i nodi al pettine evidenziando la distanza che intercorre tra pubblico, artisti, e operatori culturali. Paradossalmente, l’evento ha arricchito di significato l’operazione artistica tramutandola in un mezzo di denuncia dell’impoverimento cognitivo del cosiddetto “turismo culturale”. L’artista autore dell’opera, Nicola Bolla stesso ha dichiarato di voler forse cambiare il titolo dell’opera, a testimonianza di come quell’evento abbia mutato non solo la struttura fisica ma anche l’identità concettuale del lavoro (Cadenaser, 16 giugno 2025). La direttrice del museo, Vanessa Carlon, ha parlato di “incubo di ogni istituzione culturale” e ha sottolineato la difficoltà del restauro, riuscito grazie a un intervento certosino: “Non eravamo sicuri che si potesse restaurare (Vanessa Carlo, direttrice di Palazzo Maffei). L’opera non ha un’anima strutturale interna. Sono solo castoni. È stata bravissima la restauratrice” (Vanessa Carlon, Il Giornale dell’Arte, 2024).
L’istituzione ha voluto divulgare le foto dell’incidente come azione pedagogica con cui sensibilizzare i visitatori rispetto al valore materiale e simbolico delle opere esposte e alla loro vulnerabilità. Conservare, proteggere e comunicare l’arte sono scopi essenziali dei musei, non stupisce quindi che la vulnerabilità dei beni possa essere uno spunto di riflessioni per aprire un dibattito più esteso, che focalizza l’attenzione proprio sull’impatto del turismo di massa sul patrimonio italiano e globale.
A distanza di pochi giorni, un episodio simile ha scosso la Galleria degli Uffizi di Firenze. Un turista italiano, nel tentativo di scattare un selfie imitando la posa di un dipinto, ha causato lo strappo di un ritratto del XVII secolo raffigurante Ferdinando de’ Medici, firmato da Anton Domenico Gabbiani. Il visitatore ha perso l’equilibrio e si è appoggiato sulla tela, danneggiandola vicino al bordo inferiore. L’opera è stata immediatamente rimossa per essere restaurata e la sala chiusa fino al 2 luglio. Il direttore della Galleria, Simone Verde, ha annunciato l’introduzione di nuove restrizioni all’uso dei telefoni nelle sale, definendo l’accaduto un sintomo della crescente tendenza a “trasformare ogni visita culturale in un contenuto social”.

Nell’estate 2024 si è registrato un picco: oltre 230 milioni di presenze nel Paese, con una netta concentrazione nelle città d’arte come Firenze, Roma, Venezia, Milano (Visit Italy, Giornata Mondiale del Turismo, 2024). Ciò nonostante il boom turistico ha un prezzo: il fenomeno dell’overtourism mette in crisi la sostenibilità del patrimonio. Non è raro leggere di turisti che incidono le proprie iniziali sul Colosseo, o che si arrampicano su fontane, o che si sdraiano su opere pubbliche credendole installazioni “interattive” (El País, Assoutenti, L’Eurispes).
Gesti facilmente catalogabili come episodi di ignoranza o eccessiva leggerezza, che sono in realtà fonte di preoccupanti dubbi sull’abilità delle istituzioni di educare le persone rispetto al ruolo e alla ragione d’essere delle opere d’arte. Secondo il professor Alberto Velasco, specialista in legislazione del patrimonio, episodi come quello di Verona non sono solo responsabilità dei visitatori, ma anche di chi espone: “È stato un errore museografico. L’opera era accessibile, priva di protezioni visibili. Il museo ha sottovalutato l’ambiguità visiva della sedia” (Cadenaser, 2025).
Il “tempio delle muse” deve essere un ponte e non una trappola per l’arte. Urge un cambio di rotta. Educare nuovi sguardi, progettare nuovi percorsi espositivi, nuove metodologie di mediazione, nella speranza di favorire il rispetto e la comprensione della produzione artistica contemporanea e dei beni storicizzati. Non possiamo limitarci ai soli cartelli indicanti la scritta non toccare. Occorre offrire un’interazione sensoriale mediata tramite esperienze non solo visive o uditive.
Nell’epoca della riproducibilità tecnica totale non esiste un’aurea protettiva intorno all’opera, l’unica vera difesa è la conoscenza. Attualmente ogni visita è potenzialmente un post, ogni opera un set fotografico. Non basta godere di una mostra, è “necessario” dimostrare di essere stati in quel posto. La fretta e la fruizione ansiosa, veloce, distratta, sono il frutto dell’incontro tra overtourism e media addiction.
L’arte, con tutte le sue contraddizioni, le sue sottigliezze percettive e cognitive, sfugge alle dinamiche dettate dalla frenesia contemporanea proprio perché non si esaurisce al primo colpo d’occhio. Come possiamo insegnare ad abitare lo spazio dell’arte senza ridurla a sfondo? Come possiamo tracciare il confine tra osservare e consumare? È possibile guidare lo sguardo di masse così imponenti di visitatori?
La folla non guarda, attraversa. L’overtourism non pesa solo sui luoghi, ma anche sullo sguardo: appiattisce l’esperienza, impone la fretta, rende indistinguibile ciò che ha valore da ciò che luccica. Il museo, allora, deve smettere di fingersi neutro. Deve scegliere come raccontare, come proteggere, come insegnare. Non basta più esporre. Bisogna costruire dispositivi di senso, ostacoli alla distrazione, inviti alla sosta. Non per respingere il pubblico, ma per offrirgli un altro tempo, un’altra modalità.
La “Sedia Van Gogh” è caduta, ma ha parlato. Più di quanto avrebbe potuto da integra. Ha mostrato la frattura tra ciò che l’arte chiede e ciò che il pubblico pretende. È lì che bisogna ricominciare: dal confronto tra chi crea, chi conserva, chi osserva. E da una domanda essenziale: siamo ancora in grado di sostare davanti a qualcosa che non ci chiede nulla, se non attenzione?


