Sfavillante MiArt. Il piatto preparato e servito nella ventinovesima edizione dell’ormai storica fiera milanese, che si è chiusa il 6 aprile, è stato talmente ricco e variegato da far rischiare al visitatore un effetto indigestione. Con le sue 179 gallerie provenienti da 31 paesi, quest’anno MiArt, sempre sotto la direzione artistica di Nicola Ricciardi, ha visto ritorni importanti (per l’Italia basterà un nome, Massimo De Carlo) ma soprattutto è sembrato voler far emergere, in un momento caratterizzato da drammi, da incertezze e da tensioni internazionali, oltre che da dazi e da promesse mancate sull’abbassamento dell’Iva da parte del governo, un atteggiamento di energia, di vitalità e persino di ottimismo. E, viste le premesse, mai titolo poteva essere più azzeccato.
Robert Rauschenberg come nume tutelare di questa edizione
Si è intitolata Among Friends, “tra amici”, infatti, l’edizione di quest’anno, con un titolo che ricalcava alla lettera quello della retrospettiva di Robert Rauschenberg al MoMa del 2017, proprio come omaggio al pittore americano nato in Texas esattamente cento anni or sono, ma anche, in senso lato, come riscoperta dell’arte come mezzo di collaborazione, empatia e aiuto reciproco. E qualche capolavoro del grande maestro americano faceva effettivamente capolino qua e là per la fiera (oltre che in giro per la città per questa altrettanto ricca Art Week): nello stand messo in piedi da Intesa San Paolo, main partner della fiera, nell’area lounge, con Blue Exit, uno straordinario combine painting del 1961, proveniente dalla collezione di Luigi e Peppino Agrati. Ma, volendo omaggiare il grande maestro americano, non possiamo esimerci dal segnalare anche lo splendido Samarkand Stitches I, del 1988, realizzato con tessuti assemblati e stampati, esposto da Galerie Lelong.

Il sasso, dunque, è lanciato guardando alla lezione di Rauschenberg, non solo nel rispolverare il valore dell’empatia e dell’amicizia come linee-guida di un buon lavoro sull’arte (mai titolo e concetto sono stati più appropriati e benedicenti, in un periodo contraddistinto da guerre, inimicizie, tensioni, sia in Italia che fuori d’Italia, dove l’unico valore dilagante sembra essere divenuto quello muscolare del più forte, secondo una mai del tutto sopita lezione machista e securitaria della storia mondiale), ma anche nell’oltrepassare le barriere tra i linguaggi, in un gioioso e furioso mescolamento di materiali, di tecniche, di approcci differenti all’opera. Unica grande assente? L’Intelligenza artificiale. Poca tecnologia, poche sperimentazioni digitali, poca – si potrebbe dire – voglia di futuro, e più attenzione invece al presente, al passato, all’attualità, all’etica, alla ricerca linguistica.
Proviamo allora a fare un bilancio, tenendo il lavoro di Rauchenberg come modello di riferimento, su quali sono state le opere più interessanti di questo MiArt 2025.
Il fascino dell’oggetto, tra combine e ready made
Se Rauschenberg ha basato una parte importante della sua poetica e della sua estetica proprio sulla tecnica “combinatoria”, mescolando pratica pittorica e objet trouvé, secondo la declinazione duchampiana, non poteva saltare all’occhio la persistenza, e forse nuova vitalità, dell’attenzione per l’oggetto anche nella pratica artistica contemporanea, e in particolare nelle nuove generazioni.

Senz’altro rauschenberghiano è l’approccio al lavoro dell’artista statunitense (ma di origine italo-cubana) Amy Bravo, presentata dalla Galleria Poggiali: Bravo unisce infatti pittura, scultura e oggetti reali in opere ibride su stoffe irregolari cucite a mano, dove disegni malinconici si mescolano a colori vividi e collage: i suoi assemblaggi, tra altari e corpi simbolici, evocano presenze spirituali e memorie interiori.

E altrettanto “meticciati”, tra elementi pittorici e materiali del quotidianio, sono i bellissimi lavori, sempre fortemente connotati dal punto di vista identitario e politico, della peruviana Sandra Gamarra Heshiki, presentata dalla Prometeo Gallery di Ida Pisani, nei quali l’artista tenta una rilettura della storia della colonizzazione. Dal punto di vista formale, l’intreccio vorticoso di una pittura dal taglio fortementre evocativo con i “rifiuti” della contemporaneità scatena un fomidabile cortocicuito mentale e psicologico nello spettatore.

Incertezza, sorpresa, una leggera forma di inquietudine per la difficoltà di distinguere tra vero e falso sono le reazioni che suscitavano le sette mele, per metà mangiucchiate, “dimenticate” in un angolo dello stand della galleria Chert Lüdde di Berlino, opera dell’artista spagnolo Álvaro Urbano, che ha nell’architettura dello spazio, nella narrazione non lineare in una sorta di attività onirica il fulcro del proprio lavoro.

Per rimanere sull’oggetto, non si può non citare il bellissimo e conturbante Scolapiatti in ceramica del duo Bertozzi e Casoni, presentato su una parete esterna dello stand della Galleria Antonio Verolino di Modena. Come da anni ci ha abituato nella sua poetica, il duo Bertozzi e Casoni mette il dito nella piaga del culto e del fascino sottile del rifiuto e dello scarto con una forma impeccabile e una tecnica raffinatissima, creando un forte contrasto tra degrado e bellezza, morte e vita.
Retaggi arcaici e riti tribali

Molti anche i materiali insoliti, come stoffe, legni, ferri, manufatti di varia origine, per creare opere che, nel marasma di una contemporaneità sempre più schizofrenica e distopica, riportano ad antichui riti ancestrali: seppure non fossero neanche troppe, in fiera, le opere di ispirazione “neoprimitiva” o tribale, considerando quanti artisti che utilizzano questi “materiali non convenzionali” avessero caratterizzato l’ultima edizione della Biennale di Venezia, tra strizzate d’occhio a un certo primitivismo di maniera e recupero identitario. Il mercato italiano, abituato com’è alle opere dai supporti e dai materiali più “tradizionali”, fa forse un po’ fatica ad accogliere questo tipo di lavori dal sapore fatalmente e volutamente neoprimitivo ed “esotico”?

Sia come sia, non possiamo che partire da lei, Chiara Camoni, piacentina, classe 1974, tra le più convincenti della nuova generazione di artiste emerse con prepotenza sulla scena italiana di quest’ultimo decennio, che ha trasformato le atmosfere silvestri e ancestrali in ragionamento poetico sulle radici non scritte e non visibili del mondo. Con materiali poveri come argilla, fiori secchi e pietre, l’artista trasforma memoria e natura in opere che riportano in vita un passato mitico scomparso. Qua a MiArt, Camoni era presente con due installazioni, entrambe di grandissima potenza visiva. La prima, una composizione da Andrew Kreps Gallery di New York, con un Tavolo Insetto, le cui assi si aprono come ali di coleottero, esponendo ceramiche dalla forma organica. Fulcro creativo e conviviale, dove arte e quotidianità si intrecciano in performance domestiche che trasformano oggetti in opere vive, il Tavolo insetto fa da contraltare a un’altra installazione, sempre da Andrew Kreps, tra le più belle della fiera, intitolata due nuove figure a grandezza naturale intitolate Daimon, che richiamano strane e misteriose divinità ancestrali.

Ancora maschere dal sapore tribale, quelle, presentate nello stand di Cardi, di Ugo Rondinone, che riportavano alla nostra memoria echi di rimiscenze antropologiche e letterarie, memorie immaginarie di una preistoria mitizzata, quando l’uomo, la pietra, la foresta e la natura costituivano un unicum armonico. Un salto temporale dietro cui sembra però echeggiare una strana, malinconica ironia…

Anche Patrick Tuttofuoco, messo a confronto con un bellissimo lavoro astratto di Mirko Basaldella, da Galleria Gomiero si cimenta in una testa in pietra dal sapore primitivo, con leggerissime e delicate ascendenze pop, ma dai colori estremante tenui… un ritorno, tra citazione, ironia, memoria e riflessione esistenziale, di ascendenze arcaiche e neoprimitive?

Sempre in ambito di recupero di una dimensione ancenstrale, ecco, nello stand della galerie Tschudi di Zurigo, un lavoro dell’artista sudcoreana Kimsooja: un fagotto (Bottari in coreano) volutamente abbandontato in mezzo allo stand della galleria, con un effetto di spaesamento e perdita di orientamento, crea nella visione dello spettatore un cortocircuito che richiama il trauma dell’esilio, condizione vissuta dall’artista e oggi metafora di un’umanità alla deriva tra spinte contrastanti. I bottari (involti di stoffa tradizionali coreani) riuniscono in una sola forma, insieme perfetta e mobile, nomade e stanziale, i temi dell’identità, delle frontiere, dei nuovi nazionalismi che attraversano il mondo.

Anche i lavori di Maria Lai, misteriosi, poetici, lirici, esposti nel bellissimo, e straordinariamente armonico, stand di M77, ci parlano di storie e di culture arcaiche, di leggende antichissime e anche di legami e di amicizia e di complicità, in perfetta sintonia con il titolo di questa edizione della fiera (è l’8 settembre del 1981 quando Maria Lai realizzò a Ulassai Legarsi alla montagna, la prima opera relazionale in Italia, unendo le case del paese con un nastro azzurro, coinvolgendo gli abitanti in un gesto collettivo che simboleggiava, appunto, il legame tra persone, natura e arte).

Anche la brasiliana Ayla Tavares, nello stand della Lamb Gallery di Londra, univa arte e memoria ancestrale, attraverso opere che rimandano alla memoria archeologica, per esplorare i modi di abitare il mondo, indagando memoria, quotidianità e oggetti comuni, tra documento reale e immaginazione.

Volutamente ancestrali sono anche le opere del camerunense (ma residente in Italia) Victor Fotso Nyie, presente in fiera con una grande installazione, proposta dalla Galleria P420 di Bologna, con cui indaga un territorio spurio, tra dimensione onirica, spiritualità, spaesamento, metafora della condizione dell’identità africano contemporaneo.

Ancora in clima neotribale, ecco una bella e intensa opera dell’artista Santiago Yahuarcani presentato dalla galleria Crisis di Lima, intrisa di spiritualità amazzonica.

Meno dichiaratamente tribale, ma sempre basata sul recupero oggettuale e sull’assemblaggio di elementi dal sapore ancestrale e misterioso, l’installazione di Marilou Poncin presentata dalla galleria parigina Spiaggia Libera si muove comunque in un’atmosfera onirica, tra ricostruzioni di ali di uccelli, piume, scheletri di serpenti.
Dall’oggetto al corpo

Non solo l’oggetto, anche in una dimensione neorituale, è motivo di indagine nei lavori presentati al MiArt. Sospesi tra dimensione oggettuale e corpo eminentemente sociale e politico, gli splendidi lavori di William Kentridge attiravano i visitatori nello stand di Lia Rumma. Un corpo metamorfico, oggettivato, reificato, che racchiude in sé i temi cari all’artista sudafricano, come quelli del conflitto, della paura, dell’incertezza identitaria, del potere, della responsabilità individuale e collettiva.

Un bellissimo lavoro di Mario Ceroli del 1974, sospeso tra dimesione concettuale e decostruzione semantica, era esposto da Farsetti. Non più illustrate, non più mostrate, le parti smembrate del corpo umano erano solamente nominate, rovesciate nei loro punti cardinali: gioco semantico e rovesciamento concettuale nel lavoro di uno dei grandi protagonisti del secondo Novcemnto italiano.

Ecco poi il corpo rivisto, meticciato, ritualizzato nei lavori di Ambra Castagnetti alla Galleria Minini. Con sguardo poetico e critico, l’artista – antropologa di formazione – intreccia natura, animali e materia in un immaginario fluido e intimo, dove fragilità e forza convivono in forme evocative come i suoi scudi in ceramica e metallo.

È un corpo eminentemente politico e identitario quello messo in scena dall’artista e attivista curda Zehra Dogan (incarcerata in Turchia per le sue prese di posizione a favore della lotta del popolo curdo, e per questo accusata di terrorismo), che da Prometeo Gallery racconta la memoria e il dolore del popolo curdo attraverso corpi femminili intrecciati, scomposti, doloranti e dallo sguardo intenso, dipinti su tappeti curdi vecchi e logori intrisi di storia e violenza, sui quali l’artista interviene con materiali e strumenti antiaccademici e a volte metaforicamente estremi come sangue e urina.

Anche i corpi delle donne dipinte da Romina Bassu, nello stand di Studio Sales, ci parlano di un corpo emintemente politico, che attraverso i suoi tic, i suoi riflessi automatici, i suoi nascondimenti e i suoi desideri repressi ci parla di censura, di stereotipi, di corpo oggettivato e reificato, di consumo e di violenza.
Oggetto politico e dimensione pop

Nello stand di Galleria olandese Lang, abbiamo potuto ammirare i vasi di fiori in ceramica di Danielle Hoogendoorn, nell’ambito dell’installazione, curata da Chiara Guidi, Les Fleurs du Mal, che riflette sulla bellezza e sulla contraddizione del fiore come simbolo, ispirandosi alla raccolta poetica di Baudelaire e alla tradizione pittorica olandese delle Vanitas. Danielle Hoogendoorn riprende questi temi per esplorare il legame tra estetica, economia e sostenibilità nel mercato globale dei fiori. All’interno dello stand, una grande pittura murale raffigurante campi floreali fa da sfondo a un’esposizione interattiva, che permetteva ai visitatori di assemblare liberamente i fiori in bouquet personalizzati, come in un rituale collettivo, con l’idea di suscitare una riflessione poetica e critica sul nostro rapporto con la natura e il consumo.

Centrato sulla dimensione poetica della memoria, il lampadario metamorfico di Flavio Favelli, nello stand di Massimo Minini, sembrava invece voler intrecciare vissuto personale e storia collettiva.

Infine, la grande Fontana (no, non è un omaggio a Duchamp) dell’artista canadese Jannick Deslauriers, nello stand di Stems Gallery di Bruxelles, creava una strana sensazione di spaesamento nel visitatore: monumento pubblico (è la riproduzione, scopriamo, della fontana di St-Louis Square a Montreal) o metafora onirico-simbolica, una sirta di sogno a occhi aperti della nostra immaginazione? In uno spazio sospeso, straniante, la fontana appariva fragile e impermanente, sollecitando lo spettatore a colmare assenze e immaginare nuove narrazioni.
Politica, guerra, tensioni internazionali

Gabriele Picco con le sue torte (vere) su cui sono raffigurati momenti topici e drammatici della storia italiana (come le stragi degli anni Settanta e Ottanta), si presentava ai visitatori nello stand della Galleria EX Elettrofonica di Roma con un’anima doppia, insieme pop e civilmente impegnata: stragi e misteri d’Italia fanno da ossimorico contraltare all’apparente “dolcezza” di forme e sapori.

Dal canto suo, Monica Bonvicini, nello stand della Galleria Raffaella Cortese, portava lo spettatore della fiera a vivere un momento di ansia e di sospensione delle consuete categorie di spazio, relazione con l’altro, libertà individuale: un ragazzo qualunque, guardando il cellulare, era legato a una minacciosa e insieme elegante catena con manette, sospesa tra immobilità e azione, simbolo insieme di prigionia, inquietudine, coinvolgimento emotivo.

Infine, Bob e Roberta Smith (un solo artista britannico che ha sdoppiato la sua identità), da Maab Gallery, ha trasformato lo stand in una surreale e gioiosa fucina di slogan politici, prevalentemente contro la guerra. Un invito a far propria la dimensione dell’attivismo politico, trasformandola da dovere civile in giocoso esperimento individuale.
Intimismo, narrazione, poesia

Molte, per fortuna, anche le opere sottilmente e intimamente poetiche, che sembravano rivolgersi a una parte più recondita e segreta del nostro sguardo. Opere a volte piccole e meno appariscenti, più nascoste, da trovare dopo lunga e minuziosa ricerca, altre volte che si impongono con la forza di grandi e sofisticate installazioni. Iniziamo con un’opera magica e delicata, il bellissimo e poetico orecchio in ceramica raku di Cleo Fariselli, dal titolo quantomani evocativo: Ascoltando il rumore dell’acqua, mi sono innamorata. Nessun afflato politico, nessuna rivendicazione identitaria, nessuno sguardo al mondo esterno, potremmo dire, ma solo alla propria intimità, ai segreti della natura e della materia, all’incantamento della natura come un “portale” verso dimensioni segrete e inesplorate.

Continuiamo con la splendida installazione-teca dell’artista belga Hans Op de Beeck, che da Galleria Continua intrecciava una narrazione onirica e delicata, fatta di elementi fiabeschi e quotidiani, che cui iunvitavano a esplorare il confine tra vero, verosimile e immaginario poetico.

DA Wizard Gallery, invece, due grandi, bellissimi quadri della pittrice ungherese Attila Szűcs portavano il visitatore in un mondo onirico, indistinto, immaginifico, poetico, rarefatto, i cui protagonisti sono ragazzi, ragazze, uomini e donne qualsiasi, frutto della nostra realtà quotidiana, della nostra immaginazione o della nostra memoria.

Tocca ancora a una pittrice, Francesca Banchelli, nello stand di Galleria Vistamare, portarci nuovamente in universi paralleli onirici e metamorfici: i suoi dipinti, sospesi tra reale e surreale, uniscono figurazione e astrazione in composizioni senza tempo, dove la pittura diventa mezzo espressivo più che descrittivo, capace di rivelare l’invisibile.

Infine, fuori da ogni schema e da ogni definizione, sospesa tra un’estrema raffinatezza formale e dimensione onirica, la straordinaria installazione presentata da Bernini Gallery dedicata alla Trilogia di Eschilo e intitolata Le radici del futuro, presentava, in un trittico dal forte sapore teatrale (ma che, nella rigorosa scansione degli spazi, nella composizione e nella scelta mcromatica, sembrava rimandare visivamente alle Crocefissione di Francis Bacon), pezzi di design dal sapore eccentrico e sofisticato: pezzi di Carlo Scarpa e Osvaldo Borsani, un divano disegnato da Daniele Daminelli Studio 2046 rivestito con un tessuto dell’azienda giapponese HOSOO, frutto nientemeno che di una collaborazione con David Lynch, un meraviglioso paravento, dal sapore quasi déco, di Agostino Arrivabene disegnato per Misha Wallcovering, davanti al quale si ergeva, ieratica e misteriosa, una scultura “classica” di Francesco Vezzoli. Una strana “finesra sul passato” che sembra però risvegliare in noi una sorta di reminiscenza onirico-simbolica sul nostro inconscio. Che le “radici del futuro” siano dopotutto da trovarsi ancorate nel nostro passato, quello recente come quello più remoto?