“Nella giornata nazionale del Made in Italy, e nel giorno della nascita di Leonardo Da Vinci, mi fa piacere ricordare che il “Made in Italy” riporta principalmente alla Moda Italiana. E dunque è con grande piacere che la Camera Nazionale della Moda Italiana ha organizzato questa conversazione – dal titolo Materia Stellare – in stretta collaborazione con il Maxxi e che vede sul palco lo stilista Alessandro Michele, Direttore Creativo di Maison Valentino, a colloquio con Maria Luisa Frisa, curatrice della Mostra qui allestita dal titolo “Memorabile.Ipermoda” ( ne abbiamo già scritto qui: Memorabile Ipermoda, al Maxxi il grande sogno della fashion culture si fa arte). Mostra che ha avuto un grande successo di pubblico e che per questa ragione è stata prorogata”.

Così Carlo Capasa, Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, ha dato il via all’incontro tenutosi nella sala “Auditorium” del Maxxi. Alessandro Michele – sala piena, applausi, al suo apparire, riservati alle star – raggiunge Maria Luisa Frisa e, comodamente seduti in poltrona sul palco, danno il via allo scambio.
Prima di introdurvi, voi che leggete, all’ “Alessandro Michele pensiero” (una sintesi per temi diversi dei circa 90 minuti di conversazione) ecco un brevissimo profilo del cinquantaduenne stilista che attraversa da trent’anni la moda mondiale.
Il personaggio è ieratico. Lunghi capelli, cappellino d’ordinanza, dress sportiva; solitamente i grandi stilisti hanno un proprio look che nulla ha a che fare con ciò che disegnano. Vige l’understatement che, ovviamente, un po’ studiato sarà. Il casual quasi mai è davvero casual. Si percepisce, osservando la platea al suo ingresso sul palco, che ha un carisma ormai consolidato; lo stesso che aveva Versace, che hanno Armani, Miuccia Prada, e pochissimi altri. Milioni di consumatori hanno indossato le sue creazioni ed evidentemente si crea un circuito – né virtuoso né vizioso – ma funzionale, tra coloro che indossano un capo e colui che lo ha ideato. Durante la serata Michele non ha mai parlato del passato recente. Si è passati dall’adolescenza direttamente al presente e, immagino, che sia perché potesse avere l’opportunità di esporre chi è, cosa pensa e come lavora, aggirando la trappola delle polemiche. Anche questo dimostra che ormai Alessandro Michele è un “cult” che non si smonta facilmente perché, evidentemente, i lunghi anni di apprendistato e le glorie più recenti, hanno costruito una “muscolatura” mentale non indifferente, quella di coloro che credono in ciò che fanno e che sanno cosa fare. Per certi versi impalpabile, come appunto spesso le star; in altri momenti ragazzo di periferia (parola, questa, molto citata nel suo speech) ma un certo orgoglio per dove è arrivato glielo si legge in faccia, ammesso che fosse stato possibile vederne il volto dato che i lunghi capelli e il cappellino ben calcato sulla fronte, aumentavano l’aura dello stilista imprendibile del quale è difficile vedere le espressioni, percepire il sentiment rivolto alla platea. È probabile che, agli atti, del suo tanto lavoro rimanga la capacità di inserirsi perfettamente nel nostro tempo. Della sua moda si è detto: fluida e genderless. E questo, per un brand, può significare moltissimo, perché, per certi versi, le cose si semplificano. Rimangono, nella storia recente della Moda, i suoi anni da Gucci, un marchio altalenante ma inossidabile e al quale lui ha dato uno sprint che neanche Tom Ford riuscì a infondere. Ora si confronta con “l’alta sartoria” realizzata, cioè, su misura per il cliente e, leggendo più avanti, si scopre che è come se un atleta che si è cimentato per anni in un’attività sportiva in cui ha raccolto il massimo improvvisamente cambia competizione ma deve comunque tenere alto il suo standard consolidato. Sotto un nome per la moda magico, Valentino, ho avuto l’impressione che ora Alessandro abbia trovato stimoli nuovi. Vediamo come andrà. E ora spazio alle sue parole, divise rigorosamente in capitoli per aiutare il lettore a discricarsi nell’ “Alessandro Michele pensiero”.

Agli albori
“Vengo dalla periferia di Roma e poi dalla periferia di Roma sono andato via. Ma dove? Verso altri luoghi che sono, più o meno, periferie di altre vite. Avevo bisogno di questo, per affermare – forse solo a me stesso – che non volevo stare in quella periferia ma andare via era, tutto sommato, per trovarmi. Quando sei molto giovane, quando senti di dover dire la tua, cerchi più ossigeno, cerchi spazio. Lasciare fisicamente, ma anche mentalmente ed emotivamente quel luogo in cui ero nato significava ri-trovarmi. La moda, quella che noi chiamiamo moda, è multiforme, diciamo porosa. È così gassosa che la ritrovavo negli autobus, sui giornali, nelle copertine dei libri, dal fornaio, in televisione. La moda è quella cosa che veste tutto; è come l’ossigeno che circonda il pianeta. E quindi per me quella era come materia pronta, diciamo creatività pronta. Era tutto”.
La passione
“Capii che la mia indole di apparire, questa modalità del “farsi notare” che avveniva già in quegli anni dell’adolescenza – o forse ero ancora bambino – mi portavano verso il rito della vestizione e il gusto di acconciarmi i capelli e quella è stata probabilmente la prima mossa, ciò che mi ha fatto capire che avevo individuato qualcosa di potentissimo. E questo perché le persone si indignavano, si arrabbiavano con me, per come mi presentavo in pubblico. Sì. Tutto era rivoluzionario. E ciò accadeva a una decina di chilometri da dove siamo oggi; bastava cambiare continuamente look, acconciarmi i capelli ogni volta in maniera diversa e spesso accadeva un pandemonio. In tutto il quartiere. Pensai: questa è una roba straordinaria. Se questa è la reazione della gente io scelgo la Moda. Anche se capisco che non sia facile, ora, raccontare pensieri del genere che erano la dinamo della mia personalità”.
L’illuminazione
“Cosa sia esattamente il talento della Moda nessuno lo sa. È indescrivibile. Potrei dire che ci si sente in un recinto ma, di solito, la moda la tocchi veramente solo quando la lasci libera. Per me è stata una specie di vocazione questo mestiere, avevo capito che era qualcosa di scomodo ma potente. Qualcosa che poteva andare bene a tutti. Non era necessario che avessi del sangue blu, che fossi ricco, o chissà che, per fare quel lavoro, che forse non mi appariva, all’epoca, neanche un lavoro. Era qualcosa che esisteva a vari livelli, la percepivo ovunque. Fosse stata musica sarei stato in grado di leggere quello spartito. L’avrei potuta suonare, la moda, praticare, amplificare, usare. Che poi in realtà è quello che è stato”.
Il libro
Maria Luisa Frisa dice: “se voi pensate di comprare il libro per imparare come si diventa Alessandro Michele, non acquistatelo. È pura materia stellare. È una conversazione amicale tra Alessandro Michele e il filosofo Emanuele Coccia, che aveva tenuto una serie di lezioni in un’università degli Stati Uniti partendo dal lavoro di Alessandro. Ciò che vorrei capire”, chiede la Frisa, “cosa ha significato per te aver lavorato a un libro come questo?”.
Alessandro Michele: “È stato un modo per mettere ordine. C’è, prima o poi, bisogno di mettere ordine nei “cassetti” no? E poi tutto è capitato in un momento in cui eravamo in between, c’era la pandemia quando abbiamo iniziato a pensare al libro. Farlo è stato terapeutico. È nato per caso. Con Emanuele abbiamo lavorato in intimità, chiacchierando, come fanno gli amici. Ma lui è filosofo, parla della vita, delle sottili stranezze della stessa, dell’energia dell’universo, di quello che siamo e facciamo, materia che forse non conosco ma che ho imparato a capire meglio proprio concentrandomi sul libro. È stato terapeutico, forse per la casualità con la quale è nata l’idea. Così, non pianificato. Volevo confrontarmi con un filosofo. Registravamo tutto per poi sbobinare e valutare se davvero fosse una forma di antica conversazione. E proprio mettendo insieme il libro ho capito che stavo riorganizzando il mio pensiero, troppo libero, per certi versi, talmente libero che era persino difficile imprimerlo su carta. La lezione che traggo dal libro? Se tu parli di moda – e in questo caso parli di te che la pratichi – non puoi esimerti dalla verità fino in fondo. Sei davvero te stesso. Senti qualcosa di strano che si si muove dentro di te. Ho capito che, scrivere un libro, è come fare terapia dall’analista.
Maria Luisa Frisa chiede ad Alessandro: “quando scrivi ti metti in gioco? Tiri fuori un coraggio che forse non avresti in altre occasioni?”
Alessandro Michele: “Un libro ‘in nuce’ sta sul foglio per un po’ di tempo, abita la tua casa, i tuoi spazi privati. Sono dei pezzi di carta che si muovono in aree molto intime: il comodino, il tavolo della sala da pranzo, lo studio. Poi, ogni tanto, questi pezzi di carta, che ancora non sono nulla, riappaiono, qualcuno li vuole buttare, e tu dici: no, sono cose importanti. A tratti l’ho anche riletto, il libro, ed è strano rileggersi. Una volta pubblicato lo hai lasciato andare, nel senso che sei tu che lo hai scritto, però rileggendolo è diverso. È un po’ come con i vestiti: li crei e poi li lasci andare per il mondo”.

“La moda”, qui è Maria Luisa Frisa che parla (e a me è parso un passaggio determinante della conversazione), “ha bisogno di nutrirsi non del suo sistema ma degli altri sistemi. Se tu vuoi parlare di moda devi guardare le altre cose, proprio perché, come dici tu Alessandro, la moda semplicemente È. Può essere una ‘cosa’ molto superficiale. Ma è proprio l’essere così superficiale che le permette di essere libera e di muoversi con grande libertà attraverso gli spazi. Una volta hai detto che il tuo percorso professionale è stato tutto un inciampo, che la moda l’hai cercata ma ci sei anche inciampato dentro. Alessandro, ve lo dico, è un pifferaio magico quindi, seguendo lui, ci si può perdere. Però ho anche pensato che tu, volutamente, inserisci in quello che fai degli inciampi, degli autosabotaggi, che sono, infine, gli elementi che riconfigurano il termine outfit applicato al tuo stile”.
“Inciampo…”, replica Alessandro, “una bella parola per me. La ricollego al termine subconscio. Penso che quello che noi chiamiamo destino è un inciampo che poi effettivamente coincide con l’inconscio. Io mi sono sempre lasciato andare all’inciampo, nel senso che, anche quando ho iniziato a lavorare, in generale, ho fatto in modo che le cose accadessero inciampando. Sono successe quando mi sono finalmente lasciato andare. Inciampo è termine interessante, per me molto duro. Pensiamo all’inciampo professionale. Io mi lascio sempre convincere dalle cose storte, dalle cose che non volevo incontrare, dalle cose che mi piacevano poco, dalle cose che non mi somigliano affatto. Chiamerei inciampo l’elemento storto, l’errore, che a me però piace tantissimo, nel senso che riconosco nell’errore la perfezione. Quindi io sono attratto da una bellezza diversa. Alternativa. È un discorso difficile; però l’errore, la stortura, il difetto, mi attraggono. Quindi io, principalmente, sono attratto da una bellezza diversa. Quando si rompe un’armonia intravedo la perfezione universale. Insomma, tornando al libro, scriverlo è stato molto bello. Quello spazio, la pagina bianca, richiedeva per me una concentrazione diversa, era un’altra partita rispetto alle solite che gioco”.
Valentino
“Mi sono trovato a fare cose che solitamente praticavo con disinvoltura ma qui c’era qualcosa di diverso. I rudimenti mi erano chiari, ovviamente, ma il tempo necessario si dilatava. Ogni abito necessitava di estreme cure, percepivo che andavo incontro ad un parto al quale partecipano decine di ostetriche anche perché questa “nascita” necessitava di un’incredibile conoscenza di ciò che c’era sotto e poi questo abito “in progress” voleva “vedermi” tutti i giorni e io mi dicevo “ma come faccio? Io non ho tutto questo tempo…”, però sapevo che se lo volevo veder nascere – e nascere bene – dovevo applicarmi in questa maniera. Mi sono trovato all’interno di un grande rito antico che però parla anche un linguaggio molto contemporaneo. E poi arrivava questo vestito coperto da teli, veniva sollevato e lo vedevo scendere le scale e poi lo scoprivano… e ho visto il Sacro Graal, ho capito ancor meglio il linguaggio della donna e mentre tutto questo accadeva io imparavo, assorbivo, cose strane si affacciavano ai miei occhi. Non avevo mai fatto abiti ‘su misura’ dunque su un corpo diverso da tutti gli altri. L’abito era pensato per un corpo unico. Prototipo. E gli strati via via prendevano forma fino alle crinoline e capivo che dentro quei tessuti c’erano messaggi importanti, direi socio-politici, lì dentro c’era proprio la politica, l’occupazione dello spazio… Faticoso, bellissimo, grande soddisfazione. È stato come fare un lungo seminario. Un training importante. Un’operazione archeologica e introspettiva. Già visitare un atelier è esperienza unica”.

Le parole
Dice Maria Luisa: “le parole per Alessandro forse sono anche più importanti delle immagini. Le parole che accompagnano le sfilate di Alessandro non parlano degli abiti che vedremo in passerella ma di quelle che sono state le sue visioni, le letture, le sollecitazioni che lo hanno portato a creare”.
E lui: “Il testo non è una giustificazione ma il complemento poetico di ciò che stai per vedere. In fondo io racconto la materia e il primato della parola è necessario per raccontare ciò che è concreto. La parola ci fa sconfinare, la parola accompagna, la parola ingentilisce, lascia delle aperture. I giornalisti, all’inizio, credo che abbiano pensato che non servisse a niente. Però devo dire che alla lunga la risposta che ho avuto è stata straordinaria, perché ho letto dei pezzi bellissimi, ho capito che avevano capito”.
Inizi
“Quando non ero nessuno non avevo da perdere nulla. Lo sforzo peggiore (e inutile) è fare ciò che non sei. È cosa dannosa, deleteria. Io non l’ho mai fatto, a costo di fare fatica. Ho scommesso su cose impossibili ma ne sentivo la necessità. Ho iniziato che c’erano i fax. Dovevo fare le fotocopie. Non c’erano neanche le fotocopiatrici a colori in alcuni uffici, quindi, insomma, con dei problemi che oggi sembrano dei tempi di Silvo Pellico. In pochi anni ne sono passati decine. Però, a un certo punto, mi è stato chiesto di raccontare qualcosa. Che non fossero solo i vestiti, perché era banale. E io nel frattempo avevo creato un mio giardino ma all’interno del quale c’erano delle piante infestanti; le ho sradicate tutte. Perché si vedessero solo le cose che si dovevano vedere. Le parole che descrivevano le lunghezze delle gonne, i colori, l’ispirazione – parola che non mi piace – tutte queste cose erano ridondanti e inutili per me, non le capivo neanche quando vedevo lavorare gli altri e mi chiedevo perché volessero annichilire in quella maniera quello che facevano. Perché a volte io ho visto anche della gente fare delle cose, non prendersene la paternità e andare poi a cercare a cosa somigliassero. E io dico, ma questa è una follia, ma io l’ho visto fare veramente. Eh, ovviamente sì, perché bisognava giustificare nei confronti della stampa del perché, alla fine della storia, tu non puoi essere te stesso e basta, evidentemente. E invece la parola sconfina, la parola accompagna, la parola ingentilisce; nelle “aperture” che le parole esprimono cresco il mezzo migliore per farsi capire.
Sai? Molti filosofi hanno scritto di moda. Questa cosa mi ha stupito. Non lo sapevo. Ci sono filosofi che hanno scritto dell’apparire della moda e non lo sapevo proprio. Quando l’ho scoperto ho pensato che fosse davvero una cosa strana ma mi ha fatto riflettere”.
The End
A questo punto Alessandro parla moltissimo del suo approccio all’Haute Couture che, si capisce, ha ribaltato la sua vita lavorativa ma, come tutte le persone curiose e dunque creative (o viceversa), lo intriga e gli ha fornito nuovi stimoli. Probabilmente, lavorare per l’alta moda ha introdotto nella sua vita, dopo la filosofia, il tarlo della Storia, perché parlando fa decine di collegamenti sulla nascita della Moda passando dal Rinascimento fino al ‘700 francese e oltre. E accompagna questo momento con parole bellissime per il mito Valentino: “Lui è l’unico italiano che è riuscito ad ottenere il rispetto di Parigi. Fabiani, Simonetta, Cappucci, hanno provato ma sono dovuti tornare a Roma. Valentino in Francia è stato accolto come uno di loro. Probabilmente è proprio lui il ponte tra le due nazioni che hanno inventato la moda“.
La devozione per il mito Valentino è palese, si respira nelle sue parole. Non deve essere facile neanche per Alessandro Michele lavorare a un brand che ha fatto la storia della moda.
Sono passati novanta minuti. Maria Luisa Frisa ha “spremuto” Alessandro su passato, presente e futuro. La platea è soddisfatta, il ragazzo “cult” si è concesso per intero, non ha interpretato una parte, è stato sincero ed onesto. Fortunato chi c’era perché non sarà facilmente ripetibile un’analisi in pubblico di tale intensità.