Maurizio Cattelan torna a far parlare di sé. Lo fa come sempre, mescolando ironia, provocazione e senso dello spettacolo, in due azioni che riflettono in pieno la sua poetica: da una parte la diffusione di opere d’arte in miniatura nascoste nello spazio urbano; dall’altra il gesto teatrale di far ritirare un premio da un busto scolpito da un robot al suo posto. Due gesti differenti, ma accomunati dall’idea di sovvertire i rituali dell’arte, ribaltando i ruoli tra artista, opera, spettatore e istituzione.

Il primo atto, intitolato Where’s Maurizio?, nasce dalla collaborazione con la piattaforma Avant Arte e assume la forma di una caccia al tesoro globale. Dal 30 settembre al 7 ottobre 2025, città come New York, Londra e Amsterdam saranno disseminate di migliaia di piccole sculture, versioni miniaturizzate di una delle opere iconiche dell’artista, We Are The Revolution. I passanti, collezionisti o semplici curiosi, potranno imbattersi in questi oggetti nascosti nei luoghi più ordinari. Il valore delle miniature varierà in base al contesto: da appena 0,99 euro fino a 9.999 euro. Arte che vale tutto e niente allo stesso tempo, in un gioco che mette in crisi il rapporto tra valore artistico e valore economico.
Questa operazione è tutt’altro che un capriccio isolato. Fa parte di una linea coerente nella produzione di Cattelan, che da decenni si muove sul filo sottile tra arte e vita quotidiana, tra ironia e disincanto. Le miniature richiamano direttamente opere come Mini-Me (1999), un autoritratto in scala ridotta che già interrogava la nozione di identità, copia e simulacro. La logica è la stessa: ridurre l’arte a dimensione domestica, sorprendere lo spettatore, abbattere la distanza tra oggetto da museo e gesto urbano.

In parallelo, Cattelan ha messo in scena un altro episodio destinato a far discutere: il busto in marmo di Carrara scolpito da un robot che ha ritirato per lui il Marmomac Best Communicator Award a Verona. L’opera, realizzata in meno di 48 ore da un robot dell’azienda Robotor e rifinita a mano, è salita sul palco al posto dell’artista. Durante la cerimonia è stato proiettato un video timelapse delle fasi di lavorazione, accompagnato da un messaggio audio inviato da Cattelan da New York. Con la sua consueta ironia, l’artista ha dichiarato di aver deciso di “mandare la sua testa scolpita da un robot” perché era il modo più comodo di esserci senza fare un discorso troppo lungo, aggiungendo che “la testa avrebbe trovato un bel posto vicino al bar, così chiunque avrebbe potuto parlarle direttamente.”
Qui la provocazione si fa ancora più sottile: l’opera prende il posto dell’autore, trasformando la cerimonia di premiazione in performance. Non più l’artista che accetta l’onore, ma un busto che diventa protagonista del rituale istituzionale, riducendo il premio a un teatro dell’assurdo e al tempo stesso interrogando la natura del riconoscimento. Chi è celebrato? L’artista assente o l’oggetto che lo rappresenta? Il busto diventa così simbolo di una presenza delegata, di un’identità che si lascia sostituire da una copia tecnologica.
In queste due azioni si ritrova l’essenza del lavoro di Cattelan: la capacità di trasformare l’arte in gesto, di spostarla dal piedistallo museale al flusso sociale e quotidiano. La caccia al tesoro con le miniature rende chiunque potenziale collezionista, democratizza l’accesso e introduce l’imprevisto nel cammino urbano. Il busto che riceve un premio, invece, mette in discussione l’idea stessa di artista come figura pubblica, smascherando il cerimoniale della celebrazione e trasformandolo in performance.
L’impatto di queste mosse non è solo ironico. Cattelan da sempre agisce sul crinale di una critica sottile alle dinamiche del sistema dell’arte. Le miniature mettono in crisi la logica della rarità e dell’esclusività, moltiplicando l’opera in una diffusione quasi industriale ma inserita in un contesto unico, quello del ritrovamento casuale. Il busto, a sua volta, diventa metafora della sostituibilità dell’artista e della perdita di centralità dell’autore nell’epoca dei simulacri e delle rappresentazioni infinite.
È inevitabile che simili gesti generino discussioni. C’è chi li vede come semplici trovate mediatiche, prive di sostanza artistica, e chi invece riconosce nella loro leggerezza e ironia una continuità coerente con le pratiche concettuali del Novecento: dal détournement dadaista alla Pop Art, dalla critica istituzionale alla performance. In questo senso, Cattelan non fa che portare avanti, con il suo linguaggio e la sua sensibilità contemporanea, un discorso che l’arte coltiva da oltre un secolo: interrogare se stessa, i suoi confini, le sue convenzioni.


