Marina Abramović alla Saatchi Yates trasforma la performance in 1.200 fotografie

Marina Abramović sa come far parlare lo spazio, il corpo e il tempo. La sua nuova mostra alla Saatchi Yates, in corso dal 1° al 31 ottobre 2025, prende un gesto radicale: trasforma due dei suoi video performativi più iconici – “Blue Period” e “Red Period” – in una sequenza di oltre 1.200 fotografie invece di lasciare le immagini in movimento.

L’operazione è audace perché mette in crisi la nozione stessa di performance: non più evento da vivere in tempo reale, ma frammento da leggere, studiare, dilatare. Ogni still è un frammento intensificato del gesto, un attimo fissato che conserva il peso della durata. Il passaggio dal video alla fotografia non è riduttivo: è un cambio di forma che amplifica la tensione interna, costringendo lo spettatore a confrontarsi con la fragilità, la ripetizione, lo sforzo interiore.

In “Red Period”, Abramović appare immersa in una luce rossa monocroma: il suo volto oscilla tra seduzione e stanchezza, il gesto tra provocazione e resa. Coloro frame restituiscono quella fisicità intensa che il video amplificava con ritmo, ma qui condensata in un registro statico. Il rosso diventa pulsione, vita, desiderio e controllo. Nel “Blue Period”, invece, l’aria cambia: il viso dell’artista dà forma a gesti di disagio (lei si morde le unghie, il suo sguardo oscilla tra distacco e tormento). Il blu assume valenze di solitudine, freddo e introspezione. Queste tonalità cromatiche non sono mere scelte estetiche, ma simboli emotivi che risuonano con le sensibilità contemporanee.

L’allestimento presso Saatchi Yates copre intere pareti con queste immagini: una bombardata visiva che invita alla lentezza e all’osservazione attenta, invece che alla fruizione rapida. Il pubblico è chiamato a deviare dallo sguardo veloce e a sostare. Ogni fotogramma è una storia compressa, un nodo emotivo che reclama tempo. L’atto performativo diventa archivio: la mostra trasforma il video da evento transitorio a esperienza da sondare piega dopo piega.

Un aspetto rilevante è l’aspetto della disponibilità in vendita delle singole immagini: ogni still è acquistabile. Questa scelta inserisce la dimensione del possesso nel dialogo sull’arte della performance: il gesto che era fluido diventa cosa, oggetto di collezione. Ci si domanda quanto un frammento possa portare con sé la tensione originaria e quanto sia una sua riduzione.

Dal punto di vista critico, la mostra si muove su un crinale sottile. Da un lato, ridare centralità alla forma fotografica è coerente con le ricerche di Abramović sul tempo, il corpo e la memoria. Ma dall’altro rischia una certa sterilità: se il video è corpo in movimento, compressione di sforzo e soglia, trasformarlo in still può attenuare l’impatto dell’azione vissuta. Il bilanciamento sta nella capacità delle immagini di restituire le tensioni interne, non solo la traccia visiva.

Marina Abramović non è un’artista che celebra sé stessa: lavora per mettere in crisi il guardare, il tempo, l’aspettativa. Con questa mostra, dimostra una volta ancora che la performance non è solo gesto ma pensiero incarnato. Non importa che il video si fermi: se il frammento continua a parlare, ha ancora vita. Saatchi Yates ha scelto per lei uno spazio che rende possibile questo salto: non una retrospettiva convenzionale, ma un’esperimento di temporalità, memoria, visione.

La mostra di Abramović rende esplicito che il corpo, la durata e la trasformazione restano al centro dell’arte più radicale. Il video diventa fotografia, il gesto diventa frame, e l’esperienza si dilata oltre la soglia dell’evento: invita a restare, a guardare, a sentire. Nel tragitto fra performance e immagine, questa mostra traccia una soglia nuova per la sua pratica, non meno potente di quelle attraversate in cinquant’anni di lavoro.

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