Man Ray. L’uomo raggio e la poesia della luce: a Palazzo Reale un omaggio al genio surrealista

“Incurante, ma non indifferente”, è l’epitaffio enigmatico e carico di sottigliezza che ricorda Man Ray, al secolo Emmanuel Radnitsky, nel cimitero di Montparnasse a Parigi. Figura di spicco e artista d’avanguardia vicino al Dadaismo e al Surrealismo, nel suo essere multiforme e attraversare trasversalmente diverse discipline artistiche con tocco unico e irripetibile, sembra che amasse definire se stesso così, come a voler dire: “Non mi piego alle convenzioni del mondo, ma ho cura profonda per ciò che amo: l’arte, la libertà, l’immaginazione, l’umano”

Man Ray intendeva l’arte come libera espressione rivelatrice dell’invisibile, svincolata da regole e logiche tradizionali, dove l’idea contava più della tecnica e dove le cose vanno sempre ben oltre la loro apparenza. In questa visione la luce che ci svela il mondo diventa uno strumento creativo e sperimentale, capace non solo di illuminare ma di trasformare la realtà, dando forma all’immaginazione attraverso le tecniche innovative che infaticabilmente sperimentava. Il nome stesso scelto da Radnitsky – Man Ray, l’uomo raggio – conferma la sua considerazione della luce, non solo come strumento tecnico ma come materia spirituale, come emanazione mentale. 

Cosa resta della luce quando smette di descrivere il reale? Quando si fa impronta, traccia, presenza immateriale dell’oggetto, del corpo, dell’idea? Sono domande che tornano, come onde, attraversando le sale di Man Ray. Forme di luce, la retrospettiva in corso a Palazzo Reale fino all’11 gennaio 2026. Domande che hanno accompagnato l’intera parabola di questo artista statunitense di origine russe e che oggi, in un’epoca dove tutto è immagine, suonano ancora più necessarie.

Noire et blanche 1926 stampa ai sali dargento 173×235 cm Collezione privata
© Man Ray 2015 Trust by SIAE 2025 Image Telimage Paris

La mostra, curata con sensibilità da Pierre-Yves Butzbach e Robert Rocca, non si limita a ripercorrere la carriera di un grande maestro del Novecento; è un’esplorazione immersiva dell’immaginario di un artista che ha trasformato la fotografia in linguaggio poetico, la moda in dispositivo surrealista, l’oggetto in enigma, il volto in maschera, il corpo in sogno. Le oltre trecento opere in esposizione – tra fotografie, disegni, rayografie, oggetti, film e documenti – compongono un viaggio che non ha solo un valore storico, ma anche una pregnante attualità critica.

È interessante come il percorso espositivo apra con una sezione dedicata agli autoritratti, in cui l’artista gioca con l’idea stessa di identità: si trasforma, si traveste, si moltiplica. In una società che si avvia a diventare spettacolare, lui intuisce che il volto non è più l’essenza, ma una superficie da costruire. È il primo passo verso l’estetica dell’ambiguità che segnerà tutta la sua opera. Gli autoritratti sono seguiti da una straordinaria galleria di ritratti degli intellettuali che segnarono l’epoca tra le due guerre: Duchamp, Aragon, Éluard, Soupault, Desnos. Man Ray non si limita a rappresentare queste figure, ma le reinventa, le trasforma in personaggi, quasi a voler restituire visivamente quella stessa tensione tra parola e immagine che animava le avanguardie.

Cuore pulsante della mostra è, inevitabilmente, la figura femminile. In Man Ray, la donna non è mai solo soggetto: è soglia, apparizione, medium di un’energia trasfigurante. Le sue muse – Kiki de Montparnasse, Lee Miller, Meret Oppenheim, Ady Fidelin, Juliet Browner – sono presenze potenti e autonome, spesso co-autrici invisibili di quell’immaginario visionario. Il celebre scatto Le Violon d’Ingres (1924), con il corpo nudo di Kiki trasformato in uno strumento musicale, resta un’icona della modernità: erotismo e oggettualizzazione si fondono in una forma ambigua e affascinante, in equilibrio tra desiderio e astrazione.


Larmes 1932 © Man Ray 2015 Trust by SIAE 2025 Image Telimage Paris

Non è un caso che alcune delle opere più radicali dell’artista nascano in dialogo con queste figure. Erotique-voilée ad esempio, serie fotografica realizzata con Meret Oppenheim, o le fotografie solarizzate realizzate con Lee Miller, in cui il corpo femminile appare come una visione spettrale, luminosamente sovrannaturale, Man Ray individua la luce come elemento che traduce il reale in qualcos’altro, mutando la materia in poesia.

Ampio spazio è dato alla sezione dedicata alle rayografie (o rayogrammi), procedimento che prende il nome dal suo pseudonimo e rappresenta una delle “invenzioni” più celebri dell’artista, in cui semplici oggetti di uso quotidiano vengono appoggiati direttamente su carta fotosensibile, la quale rimane impressa una volta colpita dalla luce. Non vi è macchina fotografica, nessuna lente: solo gesto e luce. L’immagine appare come un’impronta di qualcosa che c’era, ma che si è già dissolta. È questo processo che coglie metaforicamente la vocazione più profonda di Man Ray: fare dell’arte un atto di evocazione, non di rappresentazione. Il termine “forme di luce” trova in queste opere la sua espressione più letterale e insieme più lirica: non solo mero gioco tecnico, ma meditazione sul visibile, sulla precarietà e sulla sua potenza evocativa.

Rayographie Le baiser 1922 © Man Ray 2015 Trust by SIAE 2025

Nucleo importante della mostra è quello dedicato alla fotografia di moda. Negli anni Trenta, Man Ray rivoluziona il genere, portando nel patinato universo delle riviste uno sguardo ironico, spiazzante, iper-moderno. Collabora con stilisti come Poiret, Schiaparelli, Worth, Chanel: ma più che illustrarne gli abiti, li trasforma in dispositivi onirici. La moda, in Man Ray, non è mai decorativa: è un linguaggio parallelo al surrealismo, un campo di gioco dove l’eleganza si mescola alla sovversione. In molte di queste immagini la luce è costruita come una scultura, come un elemento che scolpisce i volti e i tessuti, che li astrae dal tempo. Non c’è mai realismo, ma sempre una forma di teatralizzazione, come se ogni scatto fosse la scena di un sogno.

Il percorso si chiude con una sezione dedicata agli oggetti, ai ready-made, ai multipli, alle sculture che qui paiono venire come dall’altro mondo. Man Ray torna a dialogare con Duchamp, ma lo fa con uno stile tutto suo: ironico, sempre elegante, seduttivo. Opere come Cadeau (il ferro da stiro chiodato), Object to Be Destroyed (il metronomo con l’occhio), o i suoi assemblaggi sfidano la nozione tradizionale di opera d’arte. Non c’è unicità, non c’è aura: c’è gioco, pensiero, cortocircuito.

Nel film Le Retour à la raison, proiettato nella sala conclusiva, ritroviamo tutto questo universo sintetizzato in pochi minuti: la luce come oggetto, il corpo come superficie mutante, l’oggetto come provocazione. Il cinema, in Man Ray, è il luogo in cui tutte le sue ossessioni si incontrano, e forse si liberano.

Visitare questa mostra significa anche fare i conti con la stessa idea di “artista”. Pittore? Fotografo? Regista? Inventore? Man Ray è stato tutto questo e nessuna di queste cose. È stato, prima di tutto, un pensatore visivo, un poeta della materia. Il suo lavoro chiarisce che l’arte è fatta di domande, mai di risposte, di forme che si trasformano, di luce che si piega, di senso che si sottrae. Un artista senza definizione dotato di un’ironia mai banale, una grazia che scardina e una libertà che inquieta, soprattutto in un tempo in cui l’immagine è diventata merce, algoritmo, intrattenimento. Il suo lavoro, oggi, insegna che vedere è ancora un atto critico e che la luce può essere pensiero, a conferma che la vera arte non rappresenta semplicemente, bensì rivela.

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