“‘Life’ indaga la costruzione e la decostruzione delle narrazioni contemporanee”. Parola alle organizzatrici del nuovo festival di Zona K

Con un titolo che richiama la celebre rivista americana capace di raccontare per immagini i momenti chiave del Novecento, LIFE è il nuovo festival ideato da ZONA K: un progetto che attraversa linguaggi e sguardi diversi, capace di interrogare con urgenza e profondità la realtà contemporanea. Dopo la prima parte svoltasi in maggio alla Fabbrica del Vapore, il festival prosegue dal 4 al 21 giugno 2025, espandendosi in tutta Milano e costruendo una rete di collaborazioni con ZONA K, Teatro Out Off, Teatro Fontana e spazi non convenzionali.

Abbiamo incontrato le direttrici artistiche del progetto, Valentina Kastlunger e Valentina Picariello, per farci raccontare il dietro le quinte di questa prima edizione e il senso profondo che anima le loro scelte.

Come nasce l’idea di LIFE e cosa significa per voi oggi parlare di “narrazione della realtà” attraverso le arti?

Valentina P.
LIFE nasce dal desiderio di trasformare la nostra programmazione, che fino a poco tempo fa si sviluppava durante tutto l’anno in forma di stagione “sui generis”, in un momento più concentrato e riconoscibile, un vero e proprio festival. Questa scelta è stata dettata da esigenze organizzative, ma anche di comunicazione: lavorare per focus tematici lungo dodici mesi richiedeva continui sforzi di apertura, chiusura e rilancio, sia in termini progettuali che di investimento comunicativo.

C’era anche la volontà di ripensare il nostro posizionamento, di rinnovare il nostro percorso in città. Milano è una città piena di festival, di week dedicate a qualsiasi ambito: l’idea di lanciarne uno nuovo era un rischio calcolato, ma anche una sfida stimolante. Il nome LIFE ci accompagnava da tempo, ispirato alla storica rivista e alla forza evocativa delle immagini come strumento di racconto della realtà. Per quanto riguarda il tema della narrazione della realtà, è qualcosa che attraversa il nostro lavoro da anni. Negli spettacoli e nei progetti che abbiamo curato c’è sempre stata un’attenzione forte al presente e alla contemporaneità, sia nei linguaggi artistici che nei contenuti.

Era quindi naturale, nel momento in cui decidessimo di proporci come festival, avere una direzione precisa e coerente con il nostro percorso. Non avrebbe avuto senso realizzare un festival generico di arti performative: serviva un taglio netto, non solo per intercettare un pubblico già sensibile a questi temi, ma anche per differenziarci e mantenere una continuità nella trasformazione.

Valentina K.
Rispetto alla stagione diffusa, un festival permette di creare un luogo e un tempo di incontro molto più intenso. È uno spazio di scambio, socialità e comunità, e questo lo abbiamo percepito in modo molto forte. Quando la programmazione è diluita, anche l’esperienza collettiva si disperde. Invece un festival concentra le energie e crea un momento di dialogo reale, che per noi — e per il nostro pubblico — era importante poter vivere e offrire.

Quali urgenze artistiche e politiche volevate intercettare con questa prima edizione?

Valentina K.
In realtà siamo partite da un tema più specifico, il fact-checking, l’idea di esplorare come si costruiscono, manipolano o smontano le narrazioni nel contemporaneo. Ma il nostro metodo di lavoro è sempre stato molto aperto: si parte da un’intuizione, si cercano le opere che più risuonano e poi il tema evolve. Perché forzare le opere dentro un contenitore precostituito non ha mai funzionato per noi.

Alla fine, il tema vero del festival è diventata la narrazione della realtà stessa, e la domanda che tu ci poni è quella che poniamo a noi stesse e al pubblico: perché e come oggi raccontare il reale attraverso le arti? Che ruolo possono avere le arti accanto al giornalismo, al documentario, a tutte quelle pratiche che cercano di restituire il presente?

Il festival è stato costruito proprio a partire da questo dialogo tra diverse modalità di narrazione. E sentivamo fortissimo il bisogno di ritagliarci uno spazio dove parlare ancora di politica in senso ampio, come atto generativo, non come lamento o sterile opposizione, ma come esercizio di immaginazione e possibilità. Un luogo dove il discorso politico potesse essere vivo, vivace, fertile.

Come avete costruito il dialogo tra teatro, installazione, cinema, giornalismo e attivismo all’interno del programma? Quali criteri vi hanno guidate?

Valentina P.
Non so se parlerei davvero di “criteri” in senso stretto. Avevamo piuttosto ben chiaro che volevamo lavorare su tre ambiti principali. Il nostro, il teatro, era ovviamente il punto di partenza più naturale. Da lì, come diceva prima Valentina, abbiamo iniziato seguendo una traccia, quella del fact-checking, che ci è sembrata una buona prima direzione. E da lì le cose si sono poi sviluppate in modo quasi naturale, più per affinità che per costruzione forzata.

Alcuni autori e progetti hanno tracciato una linea iniziale. Penso a Rabin-Mroué, a Serrano, e poi a L’Orchidea di Zayde che è arrivato subito dopo. Sulle arti visive avevamo un desiderio che da anni covava, quello di lavorare con Dries Verhoeven. Non si era mai presentata l’occasione giusta, e questa volta finalmente c’erano il contesto e il momento per farlo. È stato un incastro perfetto.

Per quanto riguarda il giornalismo, c’è una presenza trasversale in tutto il programma, tranne per Jean Peters, che è stato un caso molto felice: giornalista d’inchiesta tra i più importanti in Europa negli ultimi anni e, guarda caso, anche con un passato nel teatro. È stato naturale coinvolgerlo.

In generale, il nostro filo conduttore è stato cercare artisti, autori e opere che praticassero una forma di inchiesta sul reale, che avessero voglia di approfondire, di interrogare i temi, che lo facessero da giornalisti, artisti o drammaturghi, ciascuno con il proprio sguardo. La cosa importante per noi era questa: il rigore nello sguardo e nella ricerca.

Valentina K.
Sì, e poi c’è un altro aspetto. La rivista Life è un riferimento interessante da questo punto di vista: lo sguardo dei fotografi su quella rivista è sempre stato uno sguardo sul reale, ma con una mano artistica fortissima. Ogni immagine raccontava il mondo com’è, ma attraverso una visione. È un po’ questo che abbiamo cercato: opere belle, sorprendenti, che sapessero coniugare rigore e forma, e in cui si percepisse quella scintilla di chi riesce a vedere cose che altri non colgono.

Dries Verhoeven, per esempio, è stato incredibile: se leggi la descrizione del suo lavoro sul furto nei supermercati come protesta contro il capitalismo, pensi a una cosa pesante. Poi entri nella sua installazione e ti trovi in un luogo in cui hai voglia di stare. Rimane fedele al messaggio, ma lo trasforma in opera d’arte. Questo ci piace molto: progetti che, in qualunque forma, riescono a spostare qualcosa dentro chi li incontra.

Avete scelto di ospitare progetti che lavorano su temi complessi come migrazioni, sorveglianza digitale, Palestina, femminismo carcerario… Che tipo di responsabilità sentite nell’offrire al pubblico questi contenuti?

Valentina P.
Noi non diamo risposte. E torniamo ancora una volta a Life: mostriamo la realtà per quello che è. Nasconderla, per noi, non avrebbe senso. Ti dirò che, per esempio, sulla mostra dedicata a Gaza ci abbiamo riflettuto molto. Non tanto su quella mostra in sé, ma sull’opportunità di inserire una voce così forte sulla questione palestinese in questo preciso momento storico. All’inizio eravamo tentate di tenerci più defilate rispetto alla politica “urlata” di questi mesi. Poi però la realtà — purtroppo — corre spesso più veloce di noi, e abbiamo capito che era giusto farlo. Anzi, è stata una delle scelte di cui siamo più felici. Certo, ci siamo chieste se il rischio fosse quello di essere percepite come schierate in modo troppo netto. Ma è sempre un equilibrio sottile, tra non cavalcare onde che rischiano di diventare modaiole e non rinunciare a dire le cose importanti.

Valentina K.
Sì, è proprio questo. Non si tratta di evitare di prendere posizione, ma di non cadere nella tentazione di sfruttare i momenti di massima attenzione mediatica. Quando abbiamo chiuso il programma e lo abbiamo riletto tutto insieme, ci siamo rese conto che aveva quasi il sapore di un manifesto politico. Ma non è stato pianificato a tavolino: è semplicemente il nostro modo di guardare il mondo, che inevitabilmente emerge in quello che facciamo.

Valentina P.
E poi ci siamo prese anche la libertà di scegliere di farlo con modalità diverse. Penso all’installazione Liminal, per esempio: un video sui tracciati di un drone di Frontex. È un lavoro quasi asettico, privo di narrazione emotiva esplicita, eppure potentissimo. Paradossalmente fa più effetto quello di tante immagini o discorsi drammatici, proprio perché ti costringe a restare lì, a guardare, senza essere sommerso da retorica.

Valentina K.
Anche perché poi sono spesso gli artisti stessi a scegliere il modo in cui parlare di certe cose. La curatela di un programma arriva dopo. Certo, nella selezione c’è una responsabilità, ma molte delle direzioni che abbiamo preso sono nate direttamente dalle proposte e dalle urgenze degli artisti.

Molti progetti proposti ibridano linguaggi e formati: performance immersive, installazioni sensoriali, conferenze-spettacolo. Perché questa scelta di contaminazione?

Valentina P.
Non è una scelta nuova, è qualcosa che ci accompagna da anni e che forse oggi è diventata semplicemente più esplicita, più evidente. E devo dire che anche l’esperienza con Casa degli Artisti ci ha avvicinato molto di più all’arte visiva, e questo ha contaminato anche il nostro sguardo e il nostro modo di costruire il programma.

Valentina k.

Sì, e poi fa parte del tentativo di superare le nicchie. Sono ancora mondi che si parlano poco tra loro nella fruizione. L’idea è proprio quella di creare momenti in cui chi è abituato a frequentare il teatro possa essere colpito da un’installazione o da una performance visiva e viceversa. È una scelta voluta, quella di mescolare, di mettere accanto conferenze-spettacolo, installazioni, documentari. La sfida più grande di LIFE è proprio questa: con il tempo riuscire a contaminare pubblici e immaginari diversi. Sì, e soprattutto farlo senza cavalcare le mode, ma con molto rispetto per la complessità delle cose. Raccontare la realtà è sempre un atto delicato, e noi vogliamo farlo senza semplificazioni, cercando di restituire la complessità dei temi. È inevitabile che poi il programma assuma una sua dimensione politica, ma l’atteggiamento con cui ci muoviamo è sempre di grande rispetto e attenzione.

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